«UN PAIO DI SCARPE PER LAMPEDUSA»

[GRILLOnews.it – 17.12.2016] La Parrocchia di Lampedusa chiede un aiuto concreto per cercare di arginare la falla organizzativa aperta da chi gestisce nell’isola il Centro di accoglienza per migranti. Da gennaio 2017 subentrerà nella gestione del Centro un nuovo ente; nel frattempo, però, i magazzini per la fornitura di indumenti e scarpe non sono stati riforniti, sono vuoti. Ed è facile intuire che a pagarne le conseguenze sono coloro che si trovano in stato di bisogno, con un abbigliamento inadeguato all’inverno, in ciabatte o a piedi nudi.

Per scongiurare il protrarsi di questa poco dignitosa situazione, l’appello della parrocchia lampedusana è stato raccolto in Veneto da alcune persone sensibili, affidabili, pragmatiche e che conoscono bene la realtà dell’isola. Ed è così decollato un tamtam per raccogliere scarpe da ginnastica invernali, possibilmente in ottimo stato, complete di calze, con numerazioni dal 40 al 45.

Per la zona di Vicenza è possibile contare sull’impegno volontario di Lucia Barbiero, contattabile mediante email [ luciabarbiero.mail(at)gmail.com ], mentre a Marghera (Venezia) don Nandino Capovilla ed Elisabetta Tusset hanno mobilitato nella raccolta di calzature la Parrocchia della Resurrezione del quartiere Cita [via Palladio n.3 – 30100 Marghera (Ve)], dove la consegna delle scarpe che hanno le caratteristiche sopra indicate è possibile tutti i pomeriggi dalle ore 18 alle 19, fino al 23 dicembre 2016. Identico servizio viene svolto a Venezia dalla falegnameria Augusto Capovilla [Santa Croce n.853 – 30135 Venezia] tutti i giorni, dalle ore 8 alle 18, sempre fino al 23 dicembre. Per informazioni: tel. 347.3176588.

Le calzature raccolte saranno spedite dai volontari veneti alla Parrocchia «San Gerlando» di Lampedusa [piazza Garibaldi – 92010 Lampedusa (Ag)] che provvederà a distribuirle ai migranti secondo le necessità. Analoghe iniziative di solidarietà dal basso sono attivabili in qualsiasi zona d’Italia, ed è altresì possibile far giungere alla parrocchia dell’isola calzature e calze nuove acquistate online dai relativi donatori.

Di seguito, la testimonianza che Elisabetta Tusset ha scritto qualche giorno fa di ritorno da Lampedusa.


IL BUCO NELLA RETE

di Elisabetta Tusset

Si arrampicano sul muretto, si intrufolano tra le maglie squarciate della recinzione, scavalcano e camminano in equilibrio sul cordolo per qualche metro. Saltano dall’altra parte e camminano in fila indiana, inerpicandosi sui sentieri di terra rossa e fangosa, tra sterpaglie, pietre, case della gente del luogo e cani randagi. E vanno verso il paese, molti in infradito e ciabatte di pezza, in attesa di.

Hotspot di Lampedusa, dicembre 2016. Ce l’avevano detto che per uscire dal «centro» i giovani arrivati dal mare fanno così, ma ci sembrava quasi impossibile. Un po’ più avanti c’è un cancello, l’entrata ufficiale, sempre chiuso. Da lì, chiedendo burocraticamente permesso, loro potrebbero transitare, perché questo posto dovrebbe solo essere un luogo temporaneissimo di transito in cui venire «registrati» in base ai più recenti accordi europei.

72 ore, lo sanno anche loro, c’è scritto nell’opuscolo che ricevano appena salvati dalle onde. Questo è stato -ma non più- un centro di accoglienza: ora dovrebbe essere comunque un luogo dove ricevere le prime cure, o il primo «benvenuto», in attesa di iniziare -o riprendere- il viaggio verso una vita più degna.

«Quando un anno e mezzo fa sono arrivato qui, sedicenne, ho pensato “stiamo andando in prigione”», mi confiderà più tardi Mady, un ragazzo del Burkina Faso che fa parte del gruppo di persone che hanno aderito ad un pellegrinaggio speciale a Lampedusa, intitolato «il viaggio della vita» dal suo promotore, Germano Garatto. In effetti questa intitolato ‘il viaggio della vita’ dal suo promotore Germano Garatto. In effetti questa intitolato ‘il viaggio della vita’ dal suo promotore Germano Garatto. In effetti questa costruzione, un rifugio durante la seconda guerra mondiale, incassata e quasi nascosta alla vista e vita, non induce certo al respiro. É l’imbrunire, tira vento e a tratti piove. «Durante le quattro settimane che ho trascorso qui non sono mai uscito», sussurra Mady dopo che un militare ci invita ad andarcene, cercando però di far rientrare lui che nero com’è vorrai mica sia in gita con questi bianchi. «Ero stanco e confuso. E avevo paura. Stavo a letto dormire e giocavo a calcio nel cortile con i palloni che qualcuno ci lanciava da fuori».

Guardiamo dall’alto i ragazzi che entrano o escono dal buco. Altri ci passano a fianco e sorridono sempre e salutano, a volte con le mani sul cuore chinando il capo. Ma possono entrare e uscire così? Perché non chiedono di passare dal cancello? Non sono prigionieri. Sarebbe troppo complicato, ci hanno spiegato. Troppe responsabilità se succede loro qualcosa. Ma anche tenerli chiusi dentro… poveracci, che possono fare lì. Perché non è vero che ci stanno tre giorni. Anche due mesi vivono qui. Devono pur fare due passi e far passare il tempo. E allora anche i 500 uomini delle varie forze dell’ordine passano e salutano, o si girano. E fingono di non vedere gli altrettanti 500 uomini -le donne in questi giorni sono cinque- che ciondolano su e giù per via Roma e dintorni, in attesa di ricominciare a vivere.

Intanto, qualche lampedusano che non si è stancato di spalancare le braccia, come Pilla, Costantino o mamma Rosa, apre la loro casa ai ragazzi e offre loro un barlume di normalità. Altri, in paese, protestano per la pipì fatta giro, mancanza di servizi pubblici gratuiti, o semplicemente continuano a fare la loro vita fianco a fianco a questi zombi in ciabatte da camera e felpa a dicembre.

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