AMERICA LATINA, NON PIÙ CORTILE DI CASA DEGLI USA?

I mutamenti verificatisi in America latina negli ultimi anni segnano l’inizio di una nuova era: una regione dominata dagli Stati Uniti per oltre un secolo ha in gran parte rotto le catene che a essi la legavano. Restano forti legami commerciali, politici, culturali e perfino militari, ma non hanno le stesse implicazioni economiche o politiche di un decennio fa. C’è inoltre da ritenere che la regione progredirà verso una maggiore indipendenza economica e politica, una diversificazione commerciale e finanziaria, una certa integrazione regionale e politiche macroeconomiche più efficaci, di cui le sue centinaia di milioni di poveri saranno tra i principali beneficiari.

IL FALLIMENTO ECONOMICO DELL’AMERICA LATINA E IL COLLASSO DELL’FMI



Néstor kirchner, hugo chávez, evo morales e nicanor duarte frutosLa causa più importante della svolta a sinistra dell’America latina è stata il collasso della crescita economica negli ultimi 25 anni. Dal 1960 al 1980 il reddito pro-capite aumentò nel continente dell’82% in termini reali, contro il 9% del periodo 1980-2000. Ciò ha privato una generazione e mezza di qualunque opportunità di migliorare la propria qualità della vita, quindi non sorprende che negli ultimi anni i candidati presidenziali che hanno fatto campagna elettorale contro il “neoliberismo” abbiano vinto in Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador, Uruguay e Venezuela.

Fino a poco tempo fa il Fondo monetario internazionale (Fmi) capeggiava un potente cartello di creditori che era più importante di altre leve governative di potere a Washington, compreso quello militare: se il governo di un Paese in via di sviluppo non arrivava a un accordo, restava escluso dalla maggior parte dei prestiti della Banca mondiale, della Banca interamericana di sviluppo, del G7 e perfino del settore privato. Questo cartello ha cominciato a sgretolarsi dopo la crisi asiatica della fine degli anni ‘90, ma è in America latina che l’Fmi è stato ridotto alla propria ombra. Alla fine del 2001 l’Argentina decise una moratoria di 100 miliardi di dollari del suo debito, la maggiore della storia. Il sistema monetario collassò e tutti pensarono che il governo sarebbe stato costretto a firmare un nuovo accordo col Fmi per ricevere risorse straniere che permettesse la ripresa dell’economia. Ma passò un anno senza alcuna intesa e l’economia argentina ricominciò a crescere, sperimentando il tasso più elevato dell’emisfero – oltre il 9% annuo per tre anni – nonostante il drenaggio di 14 miliardi di dollari per pagare i creditori nel 2002-2003.

In Bolivia l’ex leader indigeno di sinistra del sindacato dei produttori di coca, Evo Morales, è stato eletto capo dello Stato nel dicembre 2005 col più ampio appoggio elettorale nella storia del Paese. Ha nazionalizzato le fonti energetiche, che rappresentano la quota più importante delle entrate dalle esportazioni per innalzare le condizioni di vita di poveri e indigeni. Ha poi annunciato un programma di riforma agraria, finalizzato a redistribuire in cinque anni 140.000 chilometri quadrati di terre (un’area pari alla Grecia) tra 2,5 milioni di persone, cioè il 28% della popolazione.

Washington non può fare molto con questo governo “problematico”. Eppure la Bolivia non è il Venezuela, quinto maggiore esportatore di petrolio (contro il cui governo l’amministrazione Usa ha fatto tutto quanto era in suo potere senza però riuscire ad abbatterlo e senza che esso abbia dovuto sacrificare libertà civili né diritti democratici), ma il Paese più povero dell’America meridionale con nove milioni di abitanti e un’economia inferiore a un millesimo di quella statunitense. Però la Bolivia oggi è libera.

Il 31 marzo 2006, dopo averne per 20 anni seguito i dettami – e con un reddito pro capite assai più basso di 27 anni fa – ha lasciato spirare l’ultimo accordo col Fmi. Però nessuno dei Paesi ricchi ha minacciato di tagliare i crediti o le donazioni per farle cambiare politiche. Qualche anno fa un governo come quello di Morales avrebbe avuto poche chances di sopravvivere. Washington avrebbe avuto la capacità di strangolare economicamente il Paese per rovesciarlo. Il collasso dei creditori capeggiati dal Fmi ha coinciso in America latina con l’emergere di un nuovo erogatore di prestiti: il Venezuela. Quando l’Argentina decise, nel dicembre 2005, di dare l’addio al Fmi pagandogli in un sol colpo il rimanente del suo debito di 9,8 miliardi di dollari (5,4% del Pil), Caracas contribuì con 2,5 miliardi di dollari. Il Venezuela ha riserve monetarie internazionali per oltre 30 miliardi di dollari e potrebbe compensare qualunque taglio di finanziamenti da parte di Washington, dell’Europa o delle agenzie internazionali di credito a La Paz. Nel maggio scorso ha annunciato crediti per 200 milioni di dollari alla Bolivia senza condizionamenti delle politiche economiche, a differenza delle istituzioni finanziarie internazionali.

LA SFIDA DEI NUOVI GOVERNI: CORRUZIONE, DEBOLEZZA DELLO STATO E DEMOCRAZIA

Tutti questi esecutivi dovranno compiere un lungo tragitto per raggiungere una strategia di sviluppo sostenibile e di lungo termine. Dopo vari decenni di amministrazioni corrotte e riduzione della capacità dello Stato di regolare l’economia, non dispongono di un’adeguata struttura di pianificazione e attuazione. Questo spiega perché in Venezuela, dove Chavez parla di un “socialismo del XXI secolo”, il settore privato abbia attualmente una maggiore partecipazione nell’economia di quella che aveva prima che egli arrivasse al potere. Il governo si è imbarcato in riforme graduali, sperimentando con la riforma agraria, con alcune cooperative di produzione e credito e con programmi di microcredito. Tuttavia i funzionari sono coscienti delle limitazioni del corrotto e debole apparato statale che hanno ereditato.

Il crescente controllo sull’energia e le risorse naturali e un nuovo impegno per ridurre la povertà, prestare attenzione all’assistenza sanitaria e all’istruzione – come accade in Venezuela e Bolivia – sono importanti anche per la democrazia. Sebbene i governi di Morales e Chavez siano accusati di autoritarismo dagli oppositori, il popolo sta ricevendo quello per cui ha votato. Per questo il Venezuela ha occupato il primo posto quando Latinobarometro ha chiesto alla gente quanto democratico fosse il suo governo; e alla domanda su quanto fosse soddisfatta della democrazia del proprio Paese, è arrivato secondo dietro l’Uruguay.

Al tempo delle dittature i Paesi latinoamericani avevano più controllo sulle proprie politiche economiche che dalla democratizzazione formale. Perciò allora si registrarono uno sviluppo maggiore e un miglioramento dei livelli di vita, mentre negli ultimi anni si è eroso il consenso dei cittadini latinoamericani verso la democrazia. Fortunatamente il malcontento non si è canalizzato verso il ritorno ai regimi autoritari, ma verso un ampliamento della democrazia affinché includa le politiche socioeconomiche e una crescente partecipazione di gruppi prima emarginati come i poveri in Venezuela e gli indigeni in Bolivia. I massmedia hanno ipotizzato che le dispute tra i Paesi latinoamericani ostacoleranno gli sforzi diretti all’integrazione economica regionale o alla “dipendenza zero” dagli Stati Uniti. Effettivamente esistono conflitti d’interesse: Argentina e Brasile devono concordare con la Bolivia i termini delle forniture di gas naturale, Argentina e Uruguay si scontrano per il danno ambientale che possono provocare due cartiere sulla sponda uruguayana del fiume Uruguay, ecc.

È però improbabile che queste divergenze alterino la tendenza verso un crescente nazionalismo, una cooperazione regionale e l’indipendenza dagli Stati Uniti. I leader di Argentina, Brasile e Cile appoggiano Bolivia e Venezuela. Le nuove politiche nella regione hanno anche un sostegno internazionale. Il presidente Chirac ha accettato la nazionalizzazione degli idrocarburi in Bolivia, nonostante il gigante francese Total sia il terzo maggior produttore danneggiato da questa decisione. L’equazione politica latinoamericana potrebbe cambiare col collasso dei prezzi del petrolio, ma il Venezuela ha fissato il prezzo del petrolio nel suo bilancio a metà di quello registratosi lo scorso anno, mentre aumenta considerevolmente il gettito fiscale.

A breve termine sono possibili problemi economici. Finché i tassi d’interesse negli Stati Uniti continueranno a salire, la probabilità di fughe di capitali come quelle che provocarono la crisi del peso nel 1995 persiste. Il Messico è particolarmente vulnerabile, poiché oltre l’85% delle sue esportazioni si dirigono negli Stati Uniti, ma il progredire dell’integrazione economica latinoamericana indebolirà ulteriormente l’influenza di Washington. Esempi di successo nelle politiche economiche e sociali si diffonderanno. Ci saranno senza dubbio conflitti, errori e regressi, ma l’orologio non tornerà indietro. Il compito più difficile sarà trovare nuove politiche economiche e strategie di sviluppo applicabili a ogni Paese dopo un quarto di secolo in cui i governi hanno rinunciato persino a pensare a modelli autonomi.

MARK WEISBROTD

[Dottore in Economia all’Università del Michigan, Mark Weisbrot è condirettore del Center for Economic and Policy Research (Centro ricerche economiche e politiche) di Washington, oltre che autorevole opinionista sui principali quotidiani e sulle maggiori catene televisive statunitensi].




I RISULTATI DELLE ELEZIONI





Dal novembre del 2005 dodici paesi hanno avuto elezioni presidenziali. Solo due (Colombia e Messico) sono di destra.






Paese

Prima 

Data 

Dopo 

 Venezuela

 sinistra

 03.12.2006

 sinistra

 Honduras

 centrodestra

 27.11.2005

 centrosinistra

 Cile

 centrosinistra

 11.12.2005

 centrosinistra

 Bolivia

 centrodestra

 18.12.2005

 sinistra

 Haiti

 di transizione

 08.01.2006

 sinistra

 Costarica

 centrodestra

 05.02.2006

 centrodestra

 Perù

 centrodestra

 09.04.2006

 centrosinistra

 Colombia

 destra

 maggio 2006

 destra

 Messico

 destra

 02.07.2006

 destra

 Brasile

 centrosinistra

 01.10.2006

 centrosinistra

 Ecuador

 sinistra

 ottobre 2006

 sinistra

 Nicaragua

 centrodestra

 05.11.2006

 sinistra




Aggiustamento nell’economia statunitense e ruolo della Cina

Altri due importanti mutamenti economici allontaneranno l’America latina da Washington. Uno è che gli Stati Uniti non costituiranno un mercato in rapida crescita per le esportazioni della regione perché hanno un deficit commerciale già superiore al 6% del Pil e il cui riequilibrio è indispensabile per evitare che il debito estero superi l’intero valore del mercato della borsa. L’altro è l’apertura e la crescita del mercato cinese(che si stima sarà di 1000 miliardi di dollari nel prossimo decennio). Inoltre la Cina potrà trasformarsi in un’enorme fonte alternativa di investimenti. Attualmente il governo cinese detiene 800 miliardi di dollari in riserve monetarie internazionali, per la maggior parte in buoni del Tesoro statunitense, conservati, nonostante perdite per decine di miliardi di dollari negli ultimi anni, per sostenere la ripresa economica statunitense allo scopo di aumentare la domanda per le proprie esportazioni. Tuttavia Pechino potrebbe investire miliardi di dollari in America latina con un rendimento positivo e lo sta già facendo nell’energia e nell’industria estrattiva per garantire le forniture di materie prime alla loro economia in crescita. Anche l’energia e le industrie estrattive latinoamericane sono state interessate dal mutamento delle relazioni di potere nella regione. L’incremento dei prezzi dell’energia ha incentivato Venezuela, Bolivia ed Ecuador a rinegoziare i contratti con le compagnie straniere, ma ciò sarebbe stato più rischioso e avrebbe probabilmente avuto meno successo se Fmi e Stati Uniti avessero il potere di qualche anno fa. La recente indipendenza economica e politica dell’America latina ne ha aumentato la forza contrattuale e ha garantito miliardi di dollari di profitti alla regione.

I successi di Argentina e Venezuela, la lentezza del Brasile

In Argentina quasi 8 milioni di persone (18% della popolazione) sono uscite dalla povertà grazie a una rapida ripresa economica, ottenuta con politiche osteggiate dal Fmi che comprendevano, oltre al mantenimento di un tasso di cambio stabile e a una riduzione dei tassi d’interesse, il blocco delle tariffe dei servizi pubblici. Kirchner ha istituito controlli dei prezzi per combattere l’inflazione senza sacrificare l’occupazione e i redditi rallentando l’economia. La ripresa argentina è un risultato straordinario che ha contribuito a illuminare la strada verso l’indipendenza regionale. Anche il Venezuela ha ottenuto notevoli successi, principalmente nel fornire per la prima volta servizi sanitari gratuiti al 54% della popolazione in maggioranza povera, nel sussidiare alimenti a più del 40% dei venezuelani e nell’incrementare l’accesso all’istruzione. È comune attribuire questi successi agli elevati prezzi del petrolio, tuttavia negli anni ‘70 questi furono ancora più alti in termini reali, ma il reddito pro-capite si ridusse del 35% del reddito pro-capite d al 1970 al 1998, prima dell’elezione di Chavez. L’attuale governo ha invertito il prolungato deterioramento economico. Nel 2004 il Pil è cresciuto del 17,8% e nel 2005 del 9,8%. Il cambiamento nelle relazioni emisferiche non è importante solo nei Paesi che hanno mutato politiche economiche e sociali. Lula ha mantenuto le politiche neoliberiste del suo predecessore, Henrique Cardoso, ottenendo la stessa modesta crescita. Ciò è comunque frutto delle condizioni interne del Brasile: l’eccessivo peso politico del settore finanziario ha portato il Paese a una prolungata stagnazione, giudicando appropriata una crescita annua del 2,3% (circa l’1,2% pro-capite) per il 2005, sebbene non consenta di creare sufficienti posti di lavoro. D’altro canto il Brasile, insieme ad Argentina e Venezuela, ha fatto fallire il progetto statunitense di Accordo di libero commercio delle Americhe dopo dieci anni di negoziati. L’indipendenza dell’America latina si sente anche in altri istituzioni multilaterali: Cile e Messico, due governi che l’amministrazione Bush considera alleati, affossarono la risoluzione proposta dagli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza dell’Onu per dare legalità all’invasione dell’Iraq; per la prima volta in sei decenni, l’ Organizzazione degli Stati Americani ha eletto Segretario José Miguel Insulza, che non era il candidato degli Stati Uniti, ma quello di Brasile, Argentina e Venezuela.

Fonte: © MISSIONE OGGI