[di VINCENZO ANDRAOUS • 31.08.03] Quattro morti, a Rozzano, diventati  presenze costanti, per chiederci perché quel ragazzo abbia fatto “piazza pulita” persino di chi era lì per caso...

DOPO I FATTI DI ROZZANO: IL RAGLIO DEL MULO

Quattro morti, a Rozzano, diventati  presenze costanti, per chiederci perché quel ragazzo abbia fatto “piazza pulita” persino di chi era lì per caso. La domanda è già risposta, così evidente da sembrare sociologia spicciola parlarne. Di certo non c’è malavita organizzata dietro questo schiantarsi della ragione, neppure professionisti del crimine. C’è  solamente una periferia invisibile, un territorio vivo, ma dimenticato per il carico della sua eredità.
Un bullismo che si è trasformato in gangs che combattono altre schiere di pari. Un bullismo carismatico che vorrebbe colmare dei vuoti lasciati da pezzi importanti di malavita sconfitta, incarcerata, o depredata della stessa vita. C’è una generazione di maledetti per vocazione che a forza irrompe negli spicchi di periferia lasciati senza padroni né custodi educazionali.
Una colonna di impavidi per età, per inesperienza, per solitudine, che imperversa nelle mancanze altrui, a cominciare da quelle della  strada, dove non esiste più regola, né valore, figuriamoci ideale, tant’è che il disvalore non è più solo la spiegazione acculturata di una negatività, è soprattutto ciò che campeggia sui sellini degli scooter ben allineati ai margini della via.
Quattro morti, colpevoli di non essere duri e prepotenti a sufficienza, o turisti innocenti di una sera.
Rileggo le cronache del misfatto, gli sforzi letterari per rendere meno ostico il messaggio che traspare, ma in queste morti c’è poco spazio per qualsivoglia letteratura noir, romanticismo o nostalgia criminale di altri tempi.
Mi torna in mente la sofferenza che ho provato per il raglio di un mulo ferito a morte, un raglio che ti penetra sottopelle, ti grida dentro le ossa, fino a farti impazzire per non ascoltarlo più.
La gente discute della sparatoria, a me tornano in mente le parole scritte nel suo ultimo libro dal mio amico Erri: “ La vergogna del sangue, vergogna che paralizza più dell’ira”.
Non mi viene facile, concludere con una sentenza, con un’altra condanna del colpevole, troppo facile e scontato l’epitaffio. Mi viene più fisico e dunque meno caritatevole il disagio per quella vergogna che dovrebbe assalire; “intero il corpo e la mente,  per tanto sangue offeso e umiliato. Vergogna del dolore e vergogna del sangue “.
Quando la vergogna entra nelle case disabitate dal cuore, non c’è più giustificazione che tenga, né risposta che possa bastare. Se c’è vergogna che bussa alla tua porta, essa non è miracolo di qualche seduta di psicoanalisi, piuttosto è capolinea  di ogni trasgressione. E’ ultima stazione concessa alla cecità dell’esser contro sempre e comunque. E’ spettro di ghigliottina per ogni colpevole accettazione di un folklore metropolitano che genera cultura dei totem del branco. Quando le nocche delle dita sono sbucciate, e nelle orecchie stride il rumore dei denti spezzati, allora è davvero il momento di mettersi lo zaino in spalla, cacciandovi dentro le armi di offesa e di difesa della propria ottusità e delle proprie miserie, in codici d’onore presi a calci dalla storia, e ogni volta riesumati in occasioni tutte a perdere.
Adesso c’è chi piange, chi minaccia, chi accusa, chi difende, e c’è pure chi nuovamente e più colpevolmente volge le spalle al reale intorno. Quando accade la mattanza, si tenta inutilmente di esorcizzare il male con qualche parentesi a effetto, senza però denunciare le morti per difetto.
Nella tragedia di Rozzano, c’è ancorata e dilacerata, la torsione delle emozioni, sotto il peso dei pensieri circoncisi e imprigionati dalle assenze all’intorno, c’è il dolore della perdita, ma c’è anche l’esaltazione della zona franca, dove tutto è stato sempre condiviso, dove c’è soprattutto da difendere la rampa di lancio per continuare a fare proselitismo tra i più giovani, quelli più esposti all’innamoramento del “ sono tosto “.
Dentro a tutto questo c’è lo spinello, quello deposto come un fiore, e l’altro da fumare, comunque droga sbagliata. Lo spinello che diventa simbolo di un associazionismo  diverso, ma assai ben conosciuto, dove il fumo che scende ai polmoni si tramuta in propellente che lega a filo doppio quei clan di bambini adulti. Giunti a conclusione delle interviste emotivamente sconclusionate, forse stasera ci sarà qualcuno che farà un passo indietro per la vergogna.


Vincenzo Andraous – Tutor Comunità, Casa del Giovane Pavia – Agosto 2003