[Ettore Masina • 19.09.05] Avevo, di Gaza, un ricordo doloroso e aspro, come di un luogo polveroso e cencioso: una specie di miserabile Hong Kong, per via della densità della popolazione, ma, poi, a differenza della frenetica arrività di quella metropoli, come sospesa in una dimensione fuori del tempo...

LA LETTERA DI ETTORE MASINA: «ISRAELE E PALESTINA»

Avevo, di Gaza, un ricordo doloroso e aspro, come di un luogo polveroso e cencioso: una specie di miserabile Hong Kong, per via della densità della popolazione, ma, poi, a differenza della frenetica arrività di quella metropoli, come sospesa in una dimensione fuori del tempo. Gli enormi campi profughi, inchiodati dagli  occupanti alla loro precarietà di strutture, sempre sull’orlo di epidemie evitate soltanto dall’eroismo dei medici palestinesi, i posti di blocco israeliani che frammentavano la già esigua Striscia, la protervia dei villaggi dei coloni, con la loro abbondanza di acqua sottratta alla popolazione araba; le spiagge circondate di filo spinato, le famiglie divise a forza, essendo impossibile tornare nella zona, se per qualche ragione la si era dovuta lasciare, le scuole perennemente chiuse dagli occupanti come luoghi pericolosi, i coprifuoco, le frontiere sbarrate con la conseguenza della disoccupazione di massa, le case distrutte dai bulldozer dell’esercito.

Un inferno di miseria e di odio, un popolo tenuto per 38 anni sotto un regime crudele, che distruggeva, giorno dopo giorno, ogni parvenza di diritto. (Nel 1991, a una delegazione di parlamentari italiani da me presieduta, il generale Zach e il signor Phines Avivi – i due massimi espoenti della cosiddetta “Amministrazione civile” dei territori occupati dichiararono senza vergogna che nella Strisica applicavano volta a volta le vecchie leggi del Protettorato britanico o quelle egiziane oppure i bandi militari).

AMMIRAZIONE E DOLORE

Vedere adesso, negli schermi  televisivi, la festa di Gaza sbiadisce in me la tristezza delle  immagini che mi portavo nel cuore: e provoca, una volta di più, il rispetto e l’ammirazione per un popolo che, confinato in un ghetto di vinti, ha saputo conservare la propria identità e la propria ansia di libertà.

Più che doloroso, è vedere l’assalto palestinese alle sinagoghe dei coloni: luoghi, a suo tempo,  consacrati al culto  e – aggiungo per quel che mi riguarda come cristiano – sedi in cui si proclamava quella Scrittura, in cui è contenuta la rivelazione dell’amore di Dio. E però non si deve dimenticare che le sinagoghe dei coloni sono state spesso i luoghi del nazionalismo e razzismo  teocratico più acceso: e che negli ultimi tempi erano addirittura trasformate in fortini dai quali i peggiori sionisti hanno combattuto contro i soldati  della loro stessa nazione. Andandosene, i coloni hanno ottenuto che le loro case fossero distrutte perché nessuno dei palestinesi potesse entrarvi, neppure quelli che a suo tempo furono cacciati dalle proprie case dall’invasione israeliana.

Avere abbandonato le sinagoghe in un territorio  su cui esse sono state per due generazioni di palestinesi il simbolo dell’occupazione militare è stata una scelta provocatoria. Era stato annunziato dal governo israeliano che le sinagoghe, sconsacrate, sarebbero state demolite come le case dei coloni o smontate e rimosse. Non lo si è fatto: mentre finge un passo avanti sul cammino della pace, Sharon non dimentica di inchiodare i palestinesi al sospetto dell’opinione pubblica internazionale.

PACE: LUCI ED OMBRE

No, non è un passo verso la pace quello compiuto da Sharon, ma una decisione puramente strategica. Non si cammina verso la pace imponendo scelte unilaterali e continuando a erigere i muri della vergogna. Non si aprono spiragli di pace creando un territorio dichiarato libero ma i cui confini sono sigillati: in cui non si può costruire (o far funzionare) un porto né un aeroporto né si possono avere collegamenti con le altre aree della Palestina. Per ridare libertà a un carcerato, non basta fare uscire il secondino dalla sua cella, è la porta che va aperta.

Gaza rimane, nella volontà di Sharon, una specie di bantustan, una parvenza di entità statale, sotto il controllo di Israele. Né si va verso la pace indurendo le richieste all’Autorità palestinese, chiedendole, come condizione di effettivo riconoscimento statale, di spegnere subito e definitivamente i focolai della violenza dei gruppi armati. Come dimenticare che, durante la seconda Intifada, Sharon ha fatto sistematicamente distruggere le caserme e gli arsenali della polizia palestinese, le sue linee di comunicazione, gli automezzi e persino le carceri? E i governanti di Israele, che a suo tempo favorirono la creazione di Hamas per indebolire l’OLP, non possono pretendere che l’odio palestinese, dopo 38 anni di feroce occupazione, perda di colpo i suoi aculei mortiferi.

SOFFIO DI LIBERTA’

Tuttavia, se pure il ritiro da Gaza non è un passo verso la pace dei trattati, rimane pur sempre un soffio di libertà che riempie i polmoni dei due popoli della Palestina: di quello musulmano, poiché rinvigorisce  le sue speranze; e di quello israeliano perché rianima l’opinione pacifista.

Non  c’è dubbio che il popolo israeliano, nella sua grande maggioranza, vuole sicuramente la pace, ma non tutti hanno avuto ben chiare, in tutti questi anni, le dimensioni della tragedia di un regime militare che inevitabilmente ha inasprito (ma forse si dovrebbe dire: imbarbarito) gli occupanti e i vinti. Penso che l’opinione pubblica israeliana (come anche quella mondiale) abbia avuto sino a qualche mese fa un deficit di informazione e di consapevolezza sulla situazione dei palestinesi: che era invece patrimonio di tutti i suoi intellettuali che hanno visitato i territori occupati e persino di molti militari. Ma ora la vicenda dei coloni, della loro irriducibilità e della loro violenza ha aperto molti occhi. Gran parte di Israele comincia non solo a capirlo ma a testimoniarlo.

COMPLICITA’

L’estate scorsa, a Roma, in un grande convegno di psicoanalisti, uno dei maggiori psichiatri israeliani, Uri Hadar, ha introdotto la sua relazione con queste parole: “Voglio ringraziare gli organizzatori per avermi invitato in questa meravigliosa città. Sono particolarmente grato per questo invito perché considero, date le circostanze, assolutamente non scontato che la comunità internazionale accetti noi accademici israeliani. Come certamente sapete bene, noi siamo stati complici – per il fatto stesso di non avere protestato ad alta voce – del maltrattamento continuo dei palestinesi nei territori occupati, e della continua violazione dei loro più elementari diritti civili e umani. Dico questo in segno di sfida nei confronti di questa complicità, come assunzione  di un obbligo morale, strettamente connesso alla nostra posizione di privilegio nella società, di far risuonare le sirene d’allarme ogni qualvolta vengono calpestati diritti umani fondamentali. Dico questo anche per una condizione di disperazione e indignazione personale, uno stato affettivo che è costitutivo della mia identità di israeliano nella comunità internazionale”.

Il professor Uri Hadar parla di “disperazione e indignazione” perché, sembra, non crede che la sua sensibilità possa essere contagiosa in Israele. Io credo, invece, che questo sia un vero passo verso la pace: che la vicenda “coloniale” di Gaza abbia aperto molti occhi e molti cuori. La pace non comincia dalle bandiere ammainate ma dalla comprensione della

crudeltà del passato.

Ettore Masina

http://www.ettoremasina.it