[Ettore Masina • 20.02.05] Come una madre demente che per soccorrere un figlio disgraziato togliesse il pane agli altri (ma non a se stessa!), la comunità internazionale per aiutare le vittime dello tsunami sta sottraendo ogni aiuto agli altri paesi poveri. Lo denunziano molte Organizzazioni non governative e lo conferma M. Aelion, responsabile dei progetti regionali del Programma alimentare mondiale, agenzia delle Nazioni Unite: "Il maremoto ha provocato il dirottamento di tutti i fondi verso il Sud Est asiatico, e all'Africa non arriva più nemmeno un soldo"...

LA LETTERA DI ETTORE MASINA. «TSUNAMI SILENZIOSO»

Come una madre demente che per soccorrere un figlio disgraziato togliesse il pane agli altri (ma non a se stessa!), la comunità internazionale per aiutare le vittime dello tsunami sta sottraendo ogni aiuto agli altri paesi poveri. Lo denunziano molte Organizzazioni non governative e lo conferma M. Aelion, responsabile dei progetti regionali del Programma alimentare mondiale, agenzia delle Nazioni Unite: “Il maremoto ha provocato il dirottamento di tutti i fondi verso il Sud Est asiatico, e all’Africa non arriva più nemmeno un soldo”.

LA MIA AFRICA

Ho cominciato a conoscere l’Africa quando avevo sei anni: mio padre, ufficiale dei carabinieri, fu trasferito a Bengasi e ci portò con sé. Era l’inverno del 1934 e da Siracusa viaggiammo per tre giorni e tre notti sul bastimento “Città di Trieste”, in un mare agitato da una tempesta che rimase negli annali della navigazione. Forse per questo, sbarcare mi sembrò un sogno, subito convalidato dalle palme del Lungomare e dai libici nei loro candidi baraccani. Bengasi aveva allora, più o meno, 25 mila abitanti: 19 mila indigeni, qualche centinaio di indiani, una comunità ebraica censita a parte e 5 mila “coloniali”: funzionari e militari, con le loro famiglie.

Molti dei coloniali soffrivano di nostalgia per la Madre Patria e molti altri, invece, erano sensibili soprattutto all’ “indennità per disagiato servizio” e ai privilegi di “razza”: il più povero dei contadini meridionali, analfabeta e incapace di esprimersi in buon italiano, si sentiva, in Libia, ed era, ben più importante di qualunque arabo, fosse pure il più colto. Troppo piccolo per comprendere quanto quei privilegi fossero macchiati di sangue, non sapevo che era appena terminata la crudelissima repressione con la quale Graziani aveva schiacciato la resistenza libica; ed erano appena stati chiusi i veri e propri lager di sterminio in cui erano morti, per fame o per malattie, un terzo dei cirenaici.

Di quegli anni mi rimane soltanto il ricordo nostalgico delle oasi nei pressi di Derna con le acque limpidissime dei loro uadi, della selvaggia bellezza del Gebel, dell’incanto di Cirene e di Apollonia: monumentali rovine di un giallo arancio sulle rive di un mare violetto; e la meraviglia, venata d’incomprensione, per la vera e propria apartheid che divideva la popolazione libica da quella italiana. Nessun bambino arabo con cui giocare nelle scuole che noi bambini italiani frequentavamo, i posti “riservati” nei cinema e nei caffè, le cerimonie del Ramadam rozzamente schernite, così le donne sepolte nei grevi mantelli di lana

CONFLITTI, SCHIAVITÙ E MALATTIE

Passarono molti, molti anni e il mio lavoro di deputato mi riportò più volte in Africa. In Somalia incontrai nel suo bunker Siad Barre, il feroce dittatore somalo sponsorizzato dai socialisti italiani; e ai confini con l’Etiopia, nell’Ogaden, vidi bambini mutilati da mine di fabbricazione nostrana, imparzialmente vendute all’uno e all’altro esercito per una guerra terminata due anni prima. Nel Sudan equatoriale scoprii gli orrori del ventennale conflitto fra islamici e cristiani e animisti. A Dar el Salaam (città della pace) visitai una fabbrica alimentare in cui le operaie guadagnavano 5 mila lire la settimana.

Nello Zimbabwe, un gruppo di coraggiosi medici italiani si batteva contro il flagello dell’AIDS che colpiva un terzo delle gestanti… Vidi, naturalmente, anche cose meravigliose: l’incanto di Zanzibar, antica capitale di un regno di schiavisti, bianca città che si sgretola lentamente sotto il sole, la selvaggia magnificenza delle cascate Victoria e lo squallore di Soweto, improvvisamente fiorito di bandiere e di canti perché Nelson Mandela era stato liberato da poche ore (e già preparava, ci confidò, un discorso per chiedere ai suoi fratelli di deporre le armi e costruire la pace). Soprattutto incontrai persone – bianche o nere – che, con fatica e coraggio, coltivavano per l’Africa inedite speranze. Il volontariato italiano esprimeva molte di queste persone: penso per tutte ad Annalena Toselli, scienziata e autentica santa, poi uccisa in Somalia…

È per questo, e non soltanto per la gloria dei suoi tramonti, la bellezza delle sue donne, la grandezza dei suoi artisti inconsapevoli, che amo l’Africa e non riesco ad abituarmi a certe crudeli statistiche e alle tragedie che le sottendono. L’Africa è l’unico continente del cosiddetto Terzo Mondo che negli ultimi 25 anni è diventato più povero, da tutti i punti di vista, confermando la terribilità della sua storia. Come dimenticare che è il continente da cui, 2 milioni di anni fa, mosse la razza umana per diffondersi su tutta la Terra? Passarono millenni di millenni, poi, trenta secoli fa, uomini armati fecero ritorno a questa Madre universale, ma soltanto per metterla a ferro e fuoco e rapinarla delle sue ricchezze.

Da allora la schiavitù segnò l’Africa indelebilmente: decine di milioni di suoi figli, selezionati fra i più vigorosi, le furono violentemente sottratti per trasformare le due Americhe in immense piantagioni e miniere; e quando l’obbrobrio della schiavitù fu formalmente cancellato, il colonialismo trasformò gli africani in servi e in soldati, inchiodò l’economia africana alla servitù delle monoculture, schiacciò con ferocia le ribellioni, finché esse divennero irresistibili.

Ammainate le bandiere delle cosiddette Grandi Potenze, il potere, occulto ma quasi totale, rimase nelle mani delle società multinazionali, che ancora oggi lo usano senza pietà. Esse fecero fallire ogni vero progetto di libertà (come l’Union Miniéres, a suo tempo mandante dell’assassinio di Lumumba) o scatenarono guerre che sembrano nazionalistiche o addirittura tribali, ma in realtà servono al possesso di diamanti, di coltan, di uranio e d’oro – e sostengono un fiorente commercio di armi (nota 1).

Raramente i nostri mass-media si degnano di parlare: di queste tragedie; eppure nella zona orientale del Congo la guerra (per il coltan e per l’uranio) ha fatto 4 milioni di morti e più negli ultimi sette anni e continua; nel Darfur, dal febbraio 2003, 2 milioni di persone sono state costrette all’esodo dalle loro terre, spesso senza poter seppellire i propri morti, almeno 70 mila: apparentemente un conflitto etnico, ma certamente legato anche alla presenza di giacimenti petroliferi. Dall’Uganda alla Costa d’Avorio all’Angola torme di bambini sono arruolati a forza negli eserciti più o meno “regolari”, piccole vittime di una orrenda follìa. Sono devastazioni che minacciano anche le future generazioni perché distruggono la natura, creando povertà che fatalmente si riverseranno sui luoghi dove sembra ancora possibile la sopravvivenza.

ESODI

L’esodo – come tutti sappiamo ma cerchiamo di non vedere – è già cominciato, e sono ormai migliaia e migliaia gli autentici eroi delle migrazioni che attraversano deserti e pericoli di ogni sorta per affacciarsi sul Mediterraneo. Il cumulo delle tragedie africane è tale che il continente sembra avere generato invano grandi leaders come il tanzano Julius Nyerere, il mozambicano Amilcare Cabral, il sudafricano Desmond Tutu o la keniota Wangari Mathaai, Nobel per la Pace 2004. Dovunque, in Africa, un dittatore o la casta militare schiacciano una popolazione terrorizzata, lì si muove un capitalismo estero, la cui ferocia e ottusità sono ancora più gravi perché espressioni di veri e propri centri imperiali.

Oggi metà degli africani (400 milioni di persone) devono sopravvivere con meno di un dollaro al giorno e non hanno accesso all’acqua potabile. Tornano a espandersi malattie come la malaria, la tubercolosi e la “malattia del sonno”. In nove paesi africani l’AIDS ha abbassato la soglia di speranza di vita sotto i quarant’anni (nota 2).

Gli stati del Continente pagano complessivamente, come interessi per i loro debiti internazionali, 13 miliardi di dollari all’anno quando, secondo l’Unicef, basterebbero 9 miliardi all’anno per salvare la vita a 21 milioni di persone. Il quotidiano spagnolo “El Pais” parla giustamente di “tsunami silenzioso”. Incrudelire sulla sorte degli africani per andare al soccorso degli asiatici è mostruoso.

ELEMOSINE, EGOISMO

Non sono fra quelli che si sono commossi perché la metà degli italiani che posseggono un telefonino (soprattutto giovani) hanno inviato un euro ciascuno per i soccorsi alle vittime del maremoto. Intanto considero triste che il 50 per 100 delle persone alle quali era stato rivolto l’appello, dunque una grande massa, si sia rifiutato persino di schiacciare cinque tasti e di elargire ai miseri una minuscola parte dei soldi spesi ogni giorno per chiacchiere, inutili se non peggio. Ma poi, anche se è vero che i soldi comunque raccolti sono importanti per aiutare (realmente, spero) qualche popolazione devastata da una nuova miseria, mi turba l’dea che si possano esorcizzare problemi e grida di dolore o di allarme (anche per il nostro futuro) attivando quasi distrattamente un ingranaggio per il dono di una briciola di pane. È una specie di automatismo tecnologico di un’elemosina fatta per togliersi di torno un molesto accattone.

Ma non parlo soltanto degli aiuti privati. Il cerchio dell’egoismo dominante nelle terre del benessere si chiude quando alla pochezza della capacità di condivisione dei singoli si aggiunge la miserabilità degli aiuti statali. Ha scritto l’autorevole The Guardian: “Il governo USA ha stanziato per le vittime dello tsunami 350 milioni di dollari, e il governo inglese 96 milioni. Gli Stati Uniti. hanno sinora speso 148 miliardi di dollari nella guerra in Iraq, mentre gli inglesi ne hanno speso 11,5. La guerra in Iraq dura da 656 giorni. Lo stanziamento USA per lo tsunami equivale dunque a ciò che essi spendono in un giorno e mezzo in Iraq. Lo stanziamento inglese equivale al prezzo di cinque giorni e mezzo di operazioni belliche”.

Di più i Sette cosiddetti Grandi, riuniti a Londra mentre scrivo, sembra non siano riusciti ad accordarsi sulla cancellazione del debito estero dei paesi colpiti da maremoto (misura già di per sé insufficiente) a causa del netto rifiuto del governo americano. Anche la miseria del cosiddetto Terzo Mondo può giovare alla gloria di Bush e del suo impero…

E l’Italia? L’Italia, invece di onorare gli impegni presi a suo tempo in sede Onu, secondo i quali gli stati dovrebbero destinare alla cooperazione internazionale lo 0,7 per 100 del proprio prodotto interno lordo offre la desolante realtà di uno scarso 0,1 per 100. Quando Berlusconi e Fini si affacciano agli schermi del grande Circo massmediatico della Bontà per informarci dei prodigi della solidarietà italiana, si guardano bene dall’indicare le dimensioni di quella che è invece sordida avarizia, l’abbandono di grandi sacche di povertà alle quali avevamo promesso aiuti.

APRIRE GLI OCCHI

Lo tsunami non sarà stato soltanto una terribile catastrofe se le sue dimensioni riusciranno a farci capire alcune scomodissime verità: che la Madre Terra continuamente violentata da uno sfruttamento selvaggio, non può che nutrire i suoi figli con un latte avvelenato dal sangue della disperazione; che è dalla condizione dei poveri che si definisce una civiltà; che questa condizione è responsabilità di tutti, e il dovere della solidarietà non può essere evocato soltanto davanti alle apocalissi; che solidarietà non può voler dire semplicemente elemosina: Paolo VI ci ha ricordato che la giustizia è la misura minima della carità e papa Giovanni ci ha insegnato che il nostro superfluo va calcolato sui bisogni altrui; infine che la violenza di certe epidemie e quella del terrorismo ci mostrano che è del tutto illusorio pensare di potersi chiudere in fortezze inespugnabili.

Non può esserci una vera realpolitik che non sia una politica della ragione e che, in quanto tale, non lavori a spostare l’asse della vita internazionale dalla fame di possesso e di potere a quella di una possibilità di vita per tutti i popoli della Terra. Come non capre che, altrimenti, è l’intera umanità ad essere mortalmente minacciata?

Non un pericoloso bolscevico ma Francis Fukuyama, consulente del Pentagono e assertore, qualche anno fa, della fine della storia perché il mondo aveva, secondo lui, trovato un suo assetto accettabile e dunque definitivo, oggi descrive a questo modo la situazione planetaria dopo la crisi del bipolarismo e degli stati-nazione: “un’accozzaglia eterogenea di multinazionali, organizzazioni non-goverrnative, organizzazioni criminali, gruppi terroristici e così via”: La salvezza che egli propone è ancora una volta affidata alla forza degli stati e, in particolar modo, degli Stati Uniti.

La realtà, io credo, è che l’unica salvezza proponibile è quella dell’utopia perché ormai l’utopia coincide con la ragione. I governanti, i partiti, il modello consumista, cancellando o riducendo a entità simboliche la fraternità umana in nome di un benessere materiale da incrementare incessantemente nei paesi già privilegiati, preparano guerre sempre più crudeli, distruzioni del creato, insicurezza per i nostri figli, problemi di terribile entità per i nostri nipoti.

È necessario far crescere questa consapevolezza e la volontà di liberarsi dalla schiavitù del materialismo genocida del Mercato. Davanti alla ferocia dell’egoismo imperiale e al nanismo politico dei nostri partiti, cui sembra mancare ogni sensibilità a proposito delle comuni responsabilità planetarie, è necessario che continui a crescere di dimensioni numeriche ma anche di progettazione creativa il movimento di chi pensa – e vuole – che un altro mondo sia possibile. Famiglie, scuole, comunità di fede, associazioni culturali ma anche legami d’amore o d’amicizia, reti di libera informazione, gruppi di solidarietà devono diventare i luoghi di una speranza difficile ma testarda: la quale scopre nel suo cammino che la vita è bella quando si apre a essere dono.

Ettore Masina
http://www.ettoremasina.it


(1) Un esempio. In Angola, a tre anni dalla fine della guerra, vi sono ancora da bonificare più di duemila campi minati: Complessivamente 15 milioni di ordigni (la maggior parte di fabbricazione italiana). Se si pensa, nota l’Agenzia Misna, che la popolazione angolana è di 10 milioni di persone, è in quest’area che si verifica la più alta concentrazione al mondo, che rende improduttivo un terzo del paese. L’ex colonia portoghese -commenta la Misna- detiene il terribile record di un amputato ogni 334 abitanti, per un totale di circa 70 mila vittime, delle quali 8 mila hanno meno di 15 anni! Ai ritmi attuali è stato calcolato che occorrerà più di un secolo per bonificare completamente le aree minate in tutta l’Angola durante il conflitto che tra il 1975 e il 2002 ha provocato oltre mezzo milione di morti…

(2) Nell’anno appena concluso sono morti di AIDS 2 milioni e 400 mila africani. Avete letto bene. 200 mila ogni mese.