[di Vincenzo Andraous • 11.07.00] Sono i giorni della pietà del Santo Padre. Dell’indulto e dell’amnistia in antitesi a pena e colpa: equazione facile per un carcere che separa e allontana ogni possibilità di riparazione. Si dissente ideologicamente sulla  differenza  sostanziale dei due eventuali benefici, poco importa l’alto messaggio del Papa e del problema a monte...

LA PIETA’ DELLA GIUSTIZIA

Sono d’accordo sulla necessità del debito da pagare per il male fatto, altresì su una privazione della libertà che è certamente “responsabilità acquisita”,  ma a qualcuno vorrei chiedere se per caso sa quanto gli anni di prigione fanno sentire ancora viva una persona? Vorrei domandare, a chi giudica e fa spallucce, se  ha consapevolezza  di un  carcere che spersonalizza e annienta l’umanità che comunque ognuno di noi custodisce in sé? In questi giorni di sacro e profano, ho compreso quanto la società sia lontana dal conoscere e sapere cos’è il carcere e quali gli effetti di una pena fine a se stessa. Ho la sensazione che i films e i romanzi siano opzioni intellettuali assai più coinvolgenti, perché meno responsabilizzanti di una realtà che invece é sotto gli occhi di tutti. Una realtà carceraria ben diversa da quella raccontata, una dimensione, sì, di colpa, ma anche di ricerca di opportunità e occasioni per tentare una riparazione.  Forse potrebbe essere salutare e ragionevole che prima di esser giudicato, il mondo carcerario fosse conosciuto attraverso una forma diretta ( questo non vuol dire che auguro la galera a qualcuno, intendo un’azione sociale che guardi davvero al carcere tutti i giorni, che controlli tutto ciò che all’interno accade o peggio non avviene). Conosciuto per quello che nella sostanza é, o meglio tenta disperatamente di non essere… permanendo nella sua solitudine e costrizione a vivere e riprodursi del e nel suo. Gli uomini liberi, con la loro logica del chi-sbaglia-paga- e del penitenziario ridotto a contenitore raccoglitutto,  non tengono conto di una valutazione concreta del carcere; infatti prima o poi tutti escono, ma quali persone usciranno? Tanti uomini bambini, perché infantilizzati? Tanti uomini bomba, perché ancor più desocializzati?  Nonostante questo pericolo e l’imperativo auspicato a risolvere-evolvere, inspiegabilmente emerge una nuova sottocultura politica che nega un vero ascolto e disattende il desiderio di conoscenza della società, la quale, confusa e impaurita,  non intende farsi carico del carcere. Come se il reinserimento del detenuto non riguardasse nessuno ( o solamente l’Organizzazione Penitenziaria e chiaramente chi, in galera, è costretto a sopravvivere ), perché questo agglomerato umano é percepito come una strada di non ritorno. Questa impermeabilità é presumibile che non possa coincidere con una razionalizzazione dei problemi che ci investono tutti, per cui aumenta l’assenza di volontà e di intenzione a comprendere il mondo ( non solo del carcere ) in cui viviamo, privandoci della possibilità di contribuire quanto meno a migliorarlo. Sociologia carceraria? A me detenuto ( giustamente ) é chiesto di passare a una nuova scala di valori, a un nuovo modo di pensare, di fare, di agire, comunque tenendomi ancorato fino alle ginocchia nella privazione della mia dignità, tenendomi agganciato ad alcuni meccanismi perversi che creano regressione e non evoluzione. Con attori diversi, la stessa cosa intravedo all’esterno. Se mi fermo un attimo a pensare, mi pare di intuire che la società esige dai suoi componenti – costitutivamente, direi – sia  comportamenti buoni che opere di bene e a tal proposito vorrebbe educare e formare nella sacralità di certi valori e modelli di riferimento. Scorgo d’altro canto che i valori d’èlite, i valori cardine più apprezzati di questa società sono e si rafforzano nell’efficienza, nel successo, nel profitto della cultura della competizione dove non esiste merito o possibilità per il secondo (accantonando l’altra cultura, quella della cooperazione per chi non ha più gambe per correre o é malato nell’anima). A prima vista potrebbero essere valori eccelsi, prioritari per chi crede nel progresso, ma scandagliando a fondo mi accorgo che da queste prerogative discendono i segni e gli effetti che sconvolgono non solo le generazioni giovani ( come furbescamente si analizza-grida per non pagare il dazio di tale eredità ), ma anche quelle più mature: dunque ne è coinvolta tutta la società. Qualcuno ha detto: “il carcere riflette la società in cui viviamo”. ma la società non lo riconosce come una sua parte. In questo stato di cose, nel mio piccolo e sottovoce divengo voce protestataria; perché quand’anche vivessimo un momento di confusione, di smarrimento e disorientamento, ritengo che il ragionamento della separatezza e dell’isolamento sia il risultato di una ipocrisia interessata a mascherare altre colpe ( che certamente non giustificano le mie)…E dal momento che nessuno di noi è un alieno, ciò consiglierebbe più moderazione su questa scissione. Voci autorevoli si sforzano per indurre il sentire comune a riappropriarsi di quella morale irrinunciabile che è la coscienza; che io sia credente o meno, poco importa se per coscienza intendo il punto principale per la mia azione morale, nel ritrovare e ricostruire me stesso, nel rispetto di me stesso e degli altri, in forza di una scelta intima, dettata dalla responsabilità di una persona di sentirsi parte in causa, e parte che intende partecipare alla comune umanità. Inciampando, cadendo, rialzandomi, agisco perché conosco, agisco e intervengo, perché credo e sento nei valori che mi sono formato, per cui non esiste solamente il mio mondo, ma fors’anche quella solidarietà attiva che comporta il mettersi nei panni degli altri, persino di chi ha sbagliato. Ciò nella necessità  di un ripensamento culturale che coinvolga tutti, nessuno escluso; anch’io dal di dentro, anch’io ristretto devo assumere la mia parte e lavorare insieme a tanti altri, in cerchi concentrici sempre più allargati, sempre più coinvolgenti. Solidarietà non significa restringere tutto ai buoni sentimenti, perché sebbene apprezzabili risulterebbero sterili. La solidarietà che dal carcere richiamiamo è la stessa che s’innalza silenziosa dalle periferie, dalle città, dal mondo a cui dobbiamo dare un senso. Solidarietà come ha inteso il Pontefice: nei gesti concreti e atti vissuti, anzi convissuti con gli altri.