[di Stefano Anastasia (presidente dell’Associazione Antigone) 04.10.04] E’ stata sufficiente la combinazione del tragico suicidio del sindaco di Roccaraso e della protesta dei detenuti di Regina Coeli perché il bubbone delle carceri esplodesse. La misura del degrado è data dai fatti del carcere romano. Sono anni (più di un decennio ormai) che i detenuti delle carceri italiane - nonostante i ricorrenti vaticinii degli apprendisti stregoni ministeriali - si guardano bene dal promuovere proteste che possano arrecare danni alle cose o alle persone...

QUALE PROGRAMMA PER LE CARCERI ITALIANE?

E’ stata sufficiente la combinazione del tragico suicidio del sindaco di Roccaraso e della protesta dei detenuti di Regina Coeli perché il bubbone delle carceri esplodesse. La misura del degrado è data dai fatti del carcere romano. Sono anni (più di un decennio ormai) che i detenuti delle carceri italiane – nonostante i ricorrenti vaticinii degli apprendisti stregoni ministeriali – si guardano bene dal promuovere proteste che possano arrecare danni alle cose o alle persone. Non a caso: chi sta in galera sa bene che una civile e nonviolenta protesta può non ottenere i risultati sperati; una sommossa, una rivolta, o anche solo l’erezione di una barricata rischia al contrario di rivolgersi contro di loro. Non solo e non tanto per lo squilibrio delle forze tra rivoltosi e poliziotti, ma anche e soprattutto per le conseguenze disciplinari che i detenuti ne possono soffrire: niente liberazione anticipata, pregiudizio nel programma trattamentale, misure alternative alla detenzione che si allontanano nel tempo. Il precipitare della protesta dei detenuti della IV sezione di Regina Coeli ci dice allora che la misura è colma, la sofferenza è tale da indurre a gesti e a iniziative consapevolmente autolesionistiche.

In effetti, il sistema dell’esecuzione penale e della privazione della libertà in Italia sembra precipitato in un pozzo senza fondo. Abbandonate a se stesse, le carceri sono tornate a essere pura sofferenza, pena per la pena, senza neanche più quelle «pietose bugie» (la finalità rieducativa della pena, la missione trattamentale dell’istituzione, il reinserimento dei detenuti, ecc.) di cui qualche tempo fa discutevamo. In carcere ci si va perché si deve e non resta che contare i giorni, sperando di cavarsela in buona salute. Come nelle vecchie favole, «c’era una volta» è l’incipit di alcuni dei capitoli dell’ormai prossimo terzo Rapporto dell’Osservatorio di Antigone sulle carceri italiane: c’era una volta il trattamento, c’era una volta la sanità penitenziaria, c’era una volta …. Ad oggi, non c’è più niente, salvo – s’intende – i muri e le sbarre, i controllati e i controllori.

Tre anni sono sufficienti per un bilancio dell’indirizzo politico nel governo del sistema penale e penitenziario. Non ci sono eredità che giustifichino. Nel bene e nel male, dello stato attuale delle patrie galere il Governo Berlusconi e il suo Ministro della Giustizia portano la piena responsabilità. «Le carceri non sono alberghi a cinque stelle», sentenziò all’inizio del suo mandato il Ministro Castelli. Ce l’aveva con il nuovo regolamento penitenziario, che imponeva entro il 2005 l’adeguamento degli edifici penitenziari a minimi parametri di vivibilità (la doccia in cella, il bidet nei femminili, una cucina ogni 200 detenuti, ecc.).

Ma la rivendicazione ministeriale, la sua sottesa perentorietà normativa («le carceri non sono alberghi a cinque stelle» stava per «le carceri non devono essere alberghi a cinque stelle», o alberghi tout court, nel senso di dignitosi luoghi di dimora, per quanto coatta) è, ha mostrato di essere, un programma di governo. Negata categoricamente la dignità delle persone in stato di detenzione, il piano è stato inclinato: in tre anni non solo non è stato neppure progettato un piano di adeguamento delle strutture penitenziarie agli standard regolamentari, ma sono stati ripetutamente tagliati e ridotti all’osso gli stanziamenti per il trattamento e la salute dei detenuti, al punto che in molti istituti mancano farmaci essenziali e – notizia recente – in un ospedale psichiatrico giudiziario mancano gli psichiatri! In queste condizioni, ai detenuti non resta che incrociare le dita, e sperare di cavarsela; agli operatori non resta che alzare le braccia, che le nozze, coi fichi secchi, non si fanno.

Si vari dunque il provvedimento di clemenza riproposto in questi giorni, se si ha la forza per farlo. Servirà a calmierare il sovraffollamento. Poi però, si lavori sulle sue cause: in primis una politica sull’immigrazione e le tossicodipendenze che alimenta clandestinità e criminalità. E si lavori, infine, affinché siano garantite condizioni dignitose di detenzione e, con il concorso delle regioni e degli enti locali, opportunità di reinserimento a chi resta in carcere. Ecco, in poche parole, un programma di governo delle carceri italiane. Di un altro governo. Di un altro ministro.
 
Stefano Anastasia