[ROBERTO CUCCHINI (Missione Oggi) • 17.03.04] Nelle stesse settimane in cui si riaccendono le polemiche su Exa, la cosiddetta Esposizione di armi sportive, da caccia e da difesa, di cui Brescia dovrebbe andarne "orgogliosa", mi e' capitato di rileggere un passaggio di una intervista da Lei concessa circa due anni fa a un quotidiano locale...

SE NON ORA, QUANDO? LETTERA APERTA A PIERO BERETTA

Nelle stesse settimane in cui si riaccendono le polemiche su Exa, la cosiddetta Esposizione di armi sportive, da caccia e da difesa, di cui Brescia dovrebbe andarne “orgogliosa”, mi e’ capitato di rileggere un passaggio di una intervista da Lei concessa circa due anni fa a un quotidiano locale. “Le nostre pistole, i nostri fucili”, ricordava perentorio, con una chiarezza a dir poco sconcertante, “servono a reprimere anche le manifestazioni di piazza, quando degenerano. Siamo felici di armare la polizia contro le sommosse”.
Dato che Lei ammetteva, in tale occasione, che per lo meno il 30% del fatturato della Beretta e’ rappresentato dall’esportazione di armi, non credo di spingermi piu’ di tanto nell’interpretare le sue parole, se oso pensare che in questa percentuale ci stiano anche quelle vendute alle polizie di altri Stati.
Lei quindi ammette di aver fornito tale “merce”, e di continuare a farlo, anche a forze di polizia impegnate a reprimere manifestazioni di piazza, quando assumano le caratteristiche di vere e proprie sommosse. Affermando ciò, lo fa sicuramente con cognizione di causa. Ma basterebbe avere la pazienza di sfogliare i rapporti annuali di Amnesty International, quelli dell’agenzia dell’Onu per i diritti umani, o conoscere un po’ di storia dell’Africa o dell’America latina, per sapere quanto sottile sia stata (e lo sia tuttora) quella sottile linea rossa che segna il confine tra una manifestazione di piazza da una atto di pura sedizione. Genova del luglio 2001 cosa fu?
Benny Nato, rappresentante in Italia del African National Congress (il movimento sudafricano antiapartheid), in occasione di una sua visita a Brescia, nel settembre dell’87, dichiaro’: “Nonostante l’embargo imposto dall’Onu, in Sudafrica continuano ad arrivare armi. Ho visto gli effetti delle pistole Beretta che sono in dotazione alla polizia di Stato”. E rivolgendosi ai sindacalisti presenti, concludeva con un accorato appello: “Vi chiediamo questo impegno. Bloccate la produzione di queste armi che servono a uccidere la mia gente”. Il portavoce dell’Anc aveva una qualche ragione di invocare tale attenzione. Infatti, tra il 1976 e l’80 erano arrivate nel paese africano alcune decine di tonnellate di pistole destinate proprio alla polizia del governo di Pretoria. Il World Campaign Against Apartheid di Oslo denunciava che le forze di repressione erano dotate di mitra modello PM 12 S fabbricati proprio dalla ditta bresciana. Cosa servivano queste armi? Secondo Lei, signor Beretta, a mantenere l’ordine contro le sommosse; ma, a parere di molti testimoni oculari, a reprimere gli scioperi proclamati dall’opposizione politica e sindacale fuorilegge. Manifestazioni che finivano con decine di morti, centinaia di arresti, torture, processi politici e invii al confino. Tutti “sovversivi”?
Forse, durante l’intervista, Lei non pensava al Sudafrica, ma piuttosto al Brasile: lì, verso la metà degli anni ’70, la polizia ebbe in dotazione i suoi mitra PM 12. Erano anni bui, in cui al governo di questo paese, come degli altri della regione, c’erano o stavano per insediarsi dei signori in doppiopetto mimetico, ed era attiva quella legge per la “sicurezza  nazionale” che significava carcere, sparizioni degli oppositori politici e impunità per gli “squadroni della morte”, formati da agenti e funzionari di polizia fuori servizio, che uccidevano centinaia di persone. Questo  mentre la polizia ufficiale (cioè molti degli stessi che di notte svolgevano il “secondo lavoro”), si esercitava in esecuzioni extragiudiziali, torture e altre amenità al fine di difendere “l’ordine costituito”.

LA LISTA E’ LUNGA

Ma l’elenco dei clienti armati dall’azienda bresciana non finisce qui: mentre i carabinieros cileni reprimevano “le sommosse” di piazza, essa vendeva a quel governo la pistola mod. 92 e il mitra PM12 S. In anni piu’ recenti (anni ’80 e ’90) le cosiddette “armi da difesa” sono finite in Colombia, in Venezuela (mitragliette PM 12 e pistole), in Peru’, in Argentina (fucili BM 59), in Ecuador, nell’ Honduras. Tutti paesi che, pur avviati al ristabilimento di un sistema costituzionale di diritti, ancora negli anni ’80 non splendevano per la loro garanzia.
Rigoberta Menchú, l’india guatemalteca e premio Nobel per la pace, dichiaro’ che negli anni ’80 l’Italia aveva offerto assistenza alla polizia del suo paese, a cui la Beretta aveva fornito il mitra PM12. E oggi – grazie anche al lavoro di una commissione d’inchiesta voluta dal vescovo Girardi, e per questo assassinato – tutti possono documentarsi sul “lavoro” svolto dalle forze di polizia di quel paese, che con l’esercito si sono rese colpevoli di migliaia di esecuzioni sommarie contro contadini, operai, insegnanti, sacerdoti e membri di associazioni di difesa dei diritti umani. Vogliamo provare con l’Algeria? Ancora alla metà del decennio scorso, sono arrivate li’ un bel po’ di pistole: questo mentre migliaia di civili venivano uccisi non solo dai gruppi islamici, ma anche dalle forze di sicurezza governative e da milizie armate che compivano esecuzioni extragiudiziali, vere e proprie stragi da addebitare, come è stato successivamente denunciato, alle milizie fondamentaliste cosi’ da non interrompere il ciclo “virtuoso” della repressione antipopolare o delle minoranze, come quella esercitata sulle popolazioni berbere.
L’elenco si fa lungo. Libia: erano gli anni ’70 e Gheddafi era un buon cliente dell’azienda gardonese. Solo dopo divenne il leader di uno “Stato canaglia” (ma ora non lo è piu’). Tanto che fu proprio una Beretta ad arma re la mano assassina di un noto oppositore del colonnello, Youssef Krebesh. Marocco: tra gli anni ’80 e ’90 il governo di questo paese acquistò una partita di pistole mitragliatrici e ottenne la licenza di produzione per il fucile modello BM59. Anche qui la polizia non usava la mano leggera contro gli oppositori, facendone strage in occasione delle innumerevoli “rivolte del pane”, come quella dell’88.
E in Turchia non andava meglio, così come in Egitto, Giordania, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait. Se poi dal Medio Oriente passiamo all’Africa, su quel mercato troveremo le varie pistole 92 F, le mitragliette PM 12 e i fucili AR70 un po’ dovunque: in Costa d’Avorio come in Nigeria, in Niger come nel Camerun. Zone, come si sa, non proprio tranquille. Se infine ci spostiamo verso l’Asia, scopriremo un po’ di articoli made in Brescia anche in Thailandia, Yemen, Cina e Indonesia. Tutti paesi (soprattutto gli ultimi due) governati d classi politiche per le quali la difesa dei diritti umani e’ un optional. In conclusione: dalla sua, signor Beretta, potrà sempre fare appello alla giustificazione che tutto questo e’ stato fatto nel rispetto della legge e con l’approvazione dei vari governi che si sono succeduti in Italia negli ultimi 30-40 anni. E non Le si potrebbe dare torto, anche se non sposta di una virgola il rosario dei fatti appena ricordati.

IL BISOGNO DI CAMBIARE STRADA

Eppure una via di uscita dovremmo pur cominciare a trovarla. Non Le chiedo la riconversione, anche se la pongo come un problema di medio termine, ineludibile. E non solo per ragioni di principio. Le vorrei sottoporre solo due proposte, sulle quali potrebbe avviarsi un confronto in modo proficuo, fuori da preconcetti o vecchie ruggini.
Come Lei sa, proprio in ragione della globalizzazione e della spinta che matura in ampi settori della società civile mondiale, si sta affermando l’esigenza di stendere specifici “codici di condotta”, a qualsiasi settore merceologico appartenga il prodotto considerato, ai quali attenersi  ed orientare, secondo queste linee, le scelte di politica industriale e commerciale. A mio parere, per il settore armiero questo codice gia’ esiste, e si tratta del testo della legge 185/90. E’ uno strumento di valutazione della situazione politica internazionale e dello stato di  rispetto o meno dei diritti umani. E’ possibile fare in modo che in ogni prossimo accordo tra le parti sociali, ci sia un riferimento a tale legge, ed in modo esplicito ad alcuni suoi articoli?
Ma non solo: sarebbe disponibile a garantire la piena trasparenza commerciale di tutti i modelli di armi che escono dalle aziende del suo gruppo presenti in Italia ed in altri paesi, redigendo una volta all’anno, una “libro bianco” che dia ragione documentata e quindi verificabile, di quali sono stati e quali potrebbero essere i vari mercati di sbocco di tali produzioni, oltre che il tipo e la quantita’ di armi (o di loro componenti) che vengono destinati ai vari paesi committenti?
Come vede nulla di eversivo: Le chiedo semplicemente di denunciare la pura e semplice verità. Del resto – dovrebbe convenire –, proprio perché viviamo in un tempo in cui gli interessi economici, i problemi etici e le opportunita’ politico-sociali non si parlano, e quando si incontrano non si salutano perché non si riconoscono, bisognerebbe sentire il bisogno di cominciare a cambiare strada. Se non ora, quando?

ROBERTO CUCCHINI


Articolo pubblicato sulla rivista mensile “Missione Oggi” – Aprile 2004 – http://www.saveriani.bs.it/Missioneoggi/