[di Vincenzo Andraous • 29.09.01] In questi giorni stavo leggendo di un convegno dal titolo: CARCERE E SOCIETA', e mi sono chiesto perché invece non titolarlo: CARCERE E' SOCIETA'. Quell'accento mancante a mio avviso non è cosa di poco conto, a tal punto che mi convinco sempre di più che una persona detenuta debba fare ricorso alle proprie energie interiori per riuscire a vincersi e migliorarsi, ciò senza l'utopia del carcere-imbonitore, ma “nonostante il carcere”, diventando a nostra volta soggetti sociali attivi e non solamente “soggetti passivi”.

CARCERE E SOCIETA’ – PRIMA, DURANTE E DOPO

Questa riflessione parte dalla constatazione che nonostante la mia condizione di prigioniero, di uomo in colpa, mi ritengo comunque parte di un insieme, in quanto: sono, vivo, miglioro, perché appunto parte di una ampia collettività. Senza ciò io stesso non sono più. In questi anni di impegno ho capito che é proprio dall’esperienza che nasce la necessità di cercare ripetutamente dei chiarimenti. La spinta a mettermi in discussione, a mettermi in gioco, per riuscire a conoscere di più di me stesso e degli altri, mi é venuta soprattutto dagli incontri avuti con le altre e dal confronto che ne è derivato, nel tentativo di comprendere che rieducare, risocializzare, sarà possibile solo se la società accetterà di diventare parte attiva di questo percorso, se essa stessa diverrà parte essenziale di una vera azione sociale. E ciò senza  usare le parole come “mezzo recitato” per invocare il sentimento del perdono o della pietà. In questa accezione si tratta di prendere coscienza tanto dei problemi, quanto del fatto che, per risolverli, ci sarà sempre un costo da pagare, se vogliamo perseguire  dei benefici comuni. In ballo non ci sono solamente i dubbi derivanti dalle scienze umane, dal mistero che riveste la natura umana, dal cambiamento auspicato e sospinto avanti dalle leggi, che continuamente vengono emendate e stravolte dalle emergenze, leggi e decreti che dimostrano una patologia dell’assurdo persino nella loro impossibile corretta applicazione. Continuamente si parla di bilanci negativi tra costi e benefici, di sterminate responsabilità, di avventati passi in avanti. Forse é anche così, ma perché non chiedersi come sia possibile avere delle aspettative tanto elevate circa la rieducazione, la risocializzazione, il trattamento individualizzato, se poi gli investimenti in tal senso, solamente a parole sono ingenti, ma nei fatti ( tutti verificabili ) sono ridicoli. Ciò soprattutto alla luce di alcuni accadimenti che, seppur rimangono una minima percentuale negativa, rispetto ai tanti altri casi di effettiva reintegrazione nel tessuto sociale, comunque rappresentano uno sconvolgimento delle coscienze e degli intelletti, per cui l’emotività induce a non vedere i vuoti a monte. Innescando la reazione che favorisce lo scavalcamento e, peggio, la non visibilità sulla mancanza di strutture e mezzi a supporto di quelli leggi e della stessa ideologia del trattamento risocializzante. Il sovraffollamento é sotto gli occhi di tutti, ma a mio modo di vedere non é solo questo il motivo di una certa inefficacia; vi é pure la carenza di operatori penitenziari e non: di Educatori, Psicologi, Assistenti Sociali e Magistrati di Sorveglianza, di quelle figure cioè fondamentali, appunto, per quell’opera trattamentale di cui prima parlavo, e che la legge stessa cita a caratteri cubitali, ma che davvero mancano. So bene di non avere  titoli nel mio carniere per obiettare, ma confidando sul titolo dell’esperienza e dell’impegno, ritengo che l’altro grande problema consista nel favorire e costruire una cultura nuova più consona allo spirito delle leggi e delle norme che vigono anche all’interno di una prigione, una cultura complementare alla Riforma Penitenziaria e non in collisione con essa. Una cultura nuova come ha detto qualcuno tanti anni addietro – ma che forse nessuno ha ascoltato – che permetta, a chi vive a contatto diretto e quotidiano con il recluso, un modo nuovo di concepire e mettere in pratica la propria professionalità e le proprie responsabilità. Inutile negarlo, ancor ora in questo pianeta esiste e permane uno sbilanciamento su un versante prettamente di controllo, di disciplina, di custodia. e ciò sebbene il cammino sia iniziato da tempo. La domanda che sovente pongo a me stesso, ma pure agli operatori penitenziari durante le nostre chiacchierate é: ma tutto questo non assomiglia a una contraddizione in termini? Infatti un carcere che risponde a condizioni strettamente custodialistiche e prisonizzanti, è, nell’effetto, antitetico allo spirito e alle attese della legge stessa. Giustamente è innanzitutto al detenuto che viene chiesto di essere all’altezza del servizio offerto ( e per me si tratta di intenderlo come una conquista di coscienza e non solo come mera possibilità statuale ), ma tutto ciò  è solo il male di superficie, perché c’è  un male più grande. Questa prigione é per davvero un mondo che vive del suo ? Oppure il carcere é società ? Io  mi sento parte della società, da essa provengo e ad essa intendo tornare, a fronte di decenni di carcere già scontato. Per cui la società non può chiamarsi fuori, tanto meno considerare questo perimetro un agglomerato o un corpo morto a lei estraneo: e questo non solo perché lei stessa con i suoi squilibri, le sue ingiustizie e i disvalori, ne partorisce le trasgressioni e le conseguenti devianze che comportano quel sovraffollamento a cui prima accennavo. Il carcere é società, proprio perché esso ha “ un prima, un durante e un dopo”. Un PRIMA dove l’individuo che commette il reato, viene tolto dalla società e giustamente punito, un DURANTE in cui quel soggetto dovrà vivere e non sopravvivere regredendo, un DOPO perché quella persona ritornerà in seno alla società di cui é parte. Perciò se io ritorno nella società non può esserci nessuna separatezza, estraneità, affinché la società stessa si senta esentata dal dover fare i conti con questa realtà. Allora come può una società non sentirsi chiamata in causa, non avere la consapevolezza che é suo preciso interesse occuparsi di ciò che avviene dentro un carcere, perché volenti o nolenti, esiste un dopo, e questo dopo positivo dipende da un durante solidale costruttivo e non indifferente. I tre passaggi elencati dovrebbero esser il collante per quel ripensamento culturale che alimenti attenzione solidale tra società e carcere. Perché ho posto quell’accento iniziale? Perché ho parlato di un prima, un durante e un dopo ? Qualche tempo addietro nel corso di un dibattito a cui ero stato invitato, ho sentito un cittadino indicare il carcere come il contenitore dei mostri. La sua affermazione mi ha fatto pensare. Eppure di giorno in giorno si scopre che il mostro di turno é un magistrato, un avvocato, un politico, un ministro; un poliziotto, il salumiere; uno di noi,  uno come noi, perché tutti possiamo sbagliare, siamo tutti a rischio. Di seguito quel cittadino ( con cui ora é nata stima reciproca) ha contestato che lui é sicuro di non sbagliare, di essere al di sopra di ogni sospetto, che nulla di lui può esser messo in discussione, che insomma lui non ha e non avrà mai a che fare con carceri e carcerati. Ascoltandolo ho ricordato quando anch’io (certamente per altro verso), procedevo per assolutismi, per ricercati sofismi, per visioni unidimensionali e mi ripetevo: che parlino pure, tanto non mi beccheranno mai. Infatti da 26 anni  ho dismesso i panni del più furbo. Nel rispetto comunque delle sue opinioni gli ho risposto che nessun uomo é un alieno, perché tutti nessuno escluso, partecipiamo alla comune umanità, persino in quella più derelitta e sconfitta relegata in un carcere ( ed in carcere siano tutti degli sconfitti ). Non mi stupisce quindi la tendenza di quanti si ritengono, sì, simili a chi sbaglia, ma di contro ribadiscono che il detenuto non é un uomo, non é una persona, e dunque non é un loro simile. E più leggo queste ultime mie righe, più la mente mi porta a sperare di riuscire a smuovere una  riflessione sui molteplici legami che rendono solidale la società al carcere, sulla necessità di renderci conto che il problema della Giustizia e del Carcere riguarda tutti, e tocca tutti da vicino, a tal punto che farsene carico non é un questione di pura pietà o altruismo, bensì di un vero e proprio interesse collettivo.


Vincenzo Andraous è nato a Catania il 28-10-1954,  una figlia Yelenia che definisce la sua rivincita più grande, detenuto nel carcere di Pavia, ristretto da ventotto anni e condannato all’ergastolo “FINE PENA MAI”. Da qualche tempo usufruisce di permessi premio e di lavoro esterno semilibertà svolgendo attività di Tutor presso la Comunità “Casa Del Giovane “di Pavia. E’impegnato in attività sociali e culturali con scuole, parrocchie, associazioni e movimenti culturali. E’titolare di alcune rubriche mensili su riviste e giornali, ha conseguito circa 80 premi letterari, pubblicando libri di poesia, di saggistica sul carcere e la devianza, nonché la propria autobiografia. Ha pubblicato: “Non mi inganno” edito da Ibiskos di Empoli; “Per una Principessa in jeans”   edito da Ibiskos di Empoli;  “Samarcanda” edito da Cultura 2000 di Siracusa; “Avrei voluto sedurre la luna“ edito da Vicolo del Pavone di Piacenza; “Carcere è società” edito da Vicolo del Pavone di Piacenza; “Autobiografia di un assassino-dal buio alla rinascita” edito da Liberal di Firenze; “Oltre il carcere” edito dal Centro Stampa della “Casa del Giovane” di Pavia. “Oltre il carcere” è un libro che tenta di camminare sull’esperienza dell’autore, senza per questo rimanere prigioniero della presunzione di insegnare nulla a nessuno.Ci sono pagine che raccontano quanto avviene e spesso non avviene all’interno del perimetro carcerario. Atteggiamenti e gesti che vorrebbero provocare in ognuno un cambiamento per raggiungere secondo le proprie capacità quella necessaria consapevolezza per rimediare alle ferite inferte alla vita. Avamposti della memoria per i più giovani, sui rischi della trasgressione, nell’affidarsi ai valori estremi delle passioni estreme, votate all’annientamento. C’è il progetto di un percorso comunitario che può diventare stile di vita al servizio degli altri, apprendendo l’arte dell’ascolto e della promozione umana, attraverso l’impiego del sapere e del sentire, per una rielaborazione delle proprie esperienze vissute.