[di Vincenzo Andraous • 01.06.2001] C’è un momento nella vita di ognuno in cui il mondo diventa un perfetto sconosciuto. Si rimane con la sguardo sotto il basso dei momenti nudi che ci assalgono, e allora non è più possibile barare con gli altri né con noi stessi.

PER QUANTE SCONFITTE

C’è un momento nella vita di ognuno in cui il mondo diventa un perfetto sconosciuto. Si rimane con la sguardo sotto il basso dei momenti nudi che ci assalgono, e allora non è più possibile barare con gli altri né con noi stessi.  Sono attimi che attraversano le esistenze, che investono i percorsi e non consentono ulteriori giustificazioni. C’è improvvisa la triste consapevolezza per l’età degli entusiasmi e delle scoperte: scomparsa, dilacerata.  E’ difficile persino ricordare quell’età che è stata nostra, c’è difficoltà a ripensare a quel che siamo stati, a quel che non ha potuto essere; ai padri e alle madri che dovevamo essere e non siamo stati mai. Questo accade perché ti trovi a fare i conti con “un” te stesso riprodotto a misura.  “Un” te stesso poco differente da quel che sei stato; una fotografia vivente con gli occhi grandi e sgranati su un mondo che non riconosce altri mondi.  Immagine dai passi svelti e dai gesti bruschi per non sottostare alla linea mediana, a volte banale, della fatica, delle regole, delle rinunce. Non c’è nulla di diverso tra ciò che io ero e ciò che ora ho qui davanti a me. Esiste l’identico impulso di ribellione, il sommesso borbottio sotto il primo strato di incoscienza. C’è l’eguale ritrosia alla normalità di questa vita. Ragazzi difficili, ragazzi devianti, minori a rischio, c’è spreco di etichette, di stereotipi, delle famose gabbie di partenza: un carro allegorico stipato di tanti ieri clonati, che percorre i bordi delle nostre coscienze, senza intaccare etiche e morali. Oggi io sono tutor nelle comunità “Casa del Giovane” di Pavia, ascolto questi ragazzi nelle schegge di un passato che bussa alle porta di ogni città e periferia. Un passato che sistematicamente ricompone la sua trama, si espande, chiede aiuto in una colluttazione sorda. E’ un’eredità mai spesa fino in fondo, forse una nemesi semi umana, una complicanza dello stabilire chi è il destinatario, come il mittente. Di certo è umanità allo sbaraglio, che picchia sull’uscio delle nostre sconfitte, esprime il senso della precarietà che ci pervade e confonde, è lo scotto a margine per la torsione di una comunicazione ridotta ai monosillabi. Eppure il passato insegue il futuro circolarmente, incornando questo presente che non sa guardare ai troppi ieri dimenticati, per riuscire a incamminarci con occhi e sguardi nuovi ai fotogrammi umani gia violati. C’è un momento nella vita di ciascuno in cui è difficile riconoscersi, ogni cosa appare distante, estranea, al cospetto di una riflessione che disegna il desiderio di fare del bene, rendendoci conto invece di avere fatto del male. Così diceva anche San Paolo. Si sta sul diritto della nostra incapacità, degli ostacoli molteplici che si sovrappongono, allora viene voglia di rifugiarsi nella preghiera per trovare una soluzione, una risposta equa.  Ma in questo pregare non c’è risposta, ma ulteriore deriva per un’accettazione supina di ciò che è.  Una presunzione che sottolinea il fallimento umano, e proprio questa constatazione dovrebbe indurci a imparare a perdonarci noi per primi, se vogliamo percepire l’intenso bisogno di pietà e misericordia al nostro intorno. Me  stesso per primo. Pensare di relegare lontano la problematica giovanile distruggendo parte della nostra memoria, nella convinzione di annientare il malessere dentro di noi, è un atto di viltà inaccettabile. Dobbiamo riuscire a comprendere che un ragazzo in salita, affaticato, gia stanco di lottare e vivere, non è un giovane diverso da un altro che procede spedito verso la propria maturità. Ho l’impressione che i diversi siamo noi, che intendiamo proprietà privata ed esclusiva solo quelli che ce la fanno, perché sono in possesso degli strumenti necessari per farcela. Tanti ragazzi a perdere? No. Tanti ragazzi a ritrovarsi, dico io, e ciò potrà verificarsi, scambiandoci vicendevolmente la vita, la nostra storia personale, le nostre paure e i nostri desideri, tentando così di accorciare le distanze, non solo perché il verbo ci insegna che così andiamo nella direzione di Dio. Non solo perché essere cristiani sottende il coraggio di non volgere le spalle. Ma anche e soprattutto perché il giungere alla realizzazione di ogni individuo, passa attraverso il rispetto della dignità dell’altro. Lavoro con questi ragazzi, ci accompagniamo reciprocamente in questi cammini che ci accomunano, in una interdipendenza che è legata a filo doppio con ciò che noi chiamiamo futuro. Una rete di rapporti che è sostegno e slancio per ogni  futura personalità matura. Perciò diciamo “basta” nei riguardi delle aritmetiche, delle statistiche, delle diciture che ripetono mille volte fine; e mai fine giunge agli sproloqui. Basta davvero con il sottrarre  nomi alla vita e sogni ai vivi da poco in marcia in quest’avventura esistenziale.  Basta con il dolore che gioisce e ci dispera.  Forse dovremmo fare comparire ciò che non c’è tuttora: la capacità di andare incontro all’altro. Magari facendo un passo indietro.


Vincenzo Andraous è nato a Catania il 28-10-1954,  una figlia Yelenia che definisce la sua rivincita più grande, detenuto nel carcere di Pavia, ristretto da ventotto anni e condannato all’ergastolo “FINE PENA MAI”. Da qualche tempo usufruisce di permessi premio e di lavoro esterno semilibertà svolgendo attività di Tutor presso la Comunità “Casa Del Giovane “di Pavia. E’impegnato in attività sociali e culturali con scuole, parrocchie, associazioni e movimenti culturali. E’titolare di alcune rubriche mensili su riviste e giornali, ha conseguito circa 80 premi letterari, pubblicando libri di poesia, di saggistica sul carcere e la devianza, nonché la propria autobiografia. Ha pubblicato: “Non mi inganno” edito da Ibiskos di Empoli; “Per una Principessa in jeans”   edito da Ibiskos di Empoli;  “Samarcanda” edito da Cultura 2000 di Siracusa; “Avrei voluto sedurre la luna“ edito da Vicolo del Pavone di Piacenza; “Carcere è società” edito da Vicolo del Pavone di Piacenza; “Autobiografia di un assassino-dal buio alla rinascita” edito da Liberal di Firenze; “Oltre il carcere” edito dal Centro Stampa della “Casa del Giovane” di Pavia. “Oltre il carcere” è un libro che tenta di camminare sull’esperienza dell’autore, senza per questo rimanere prigioniero della presunzione di insegnare nulla a nessuno.Ci sono pagine che raccontano quanto avviene e spesso non avviene all’interno del perimetro carcerario. Atteggiamenti e gesti che vorrebbero provocare in ognuno un cambiamento per raggiungere secondo le proprie capacità quella necessaria consapevolezza per rimediare alle ferite inferte alla vita. Avamposti della memoria per i più giovani, sui rischi della trasgressione, nell’affidarsi ai valori estremi delle passioni estreme, votate all’annientamento. C’è il progetto di un percorso comunitario che può diventare stile di vita al servizio degli altri, apprendendo l’arte dell’ascolto e della promozione umana, attraverso l’impiego del sapere e del sentire, per una rielaborazione delle proprie esperienze vissute.