CARCERE. MACERIE UMANE E SPERANZA

Amnistia o indulto: con ciò il problema è davvero risolto? O forse occorre ripensare davvero ai tetti spropositati delle condanne, alle celle anguste che devastano ciò che è già sufficientemente ammaccato, ai benefici carcerari ridotti al lumicino. Occorre pensare ai programmi ed hai progetti fattibili perché chi esce non abbia a ritornarvi.

Quali investimenti sono approntati, per rendere inattuabile la pratica  darwiniana dell’alzare il tiro onde assicurarsi un’impossibile impunibilità. Cambiare è possibile, cambiare mentalità e atteggiamenti è un’opera di ricostruzione attuabile: ma nessuno si salva da solo.

Oggi come ieri dove stanno gli strumenti di confronto, di messa in discussione, dov’è l’unico e fondamentale strumento di rieducazione; cioè il lavoro? Dove abitano le alternative alla strada una volta ritornati ai bordi della carreggiata?

É importante generare possibilità di ricostruzione su quanto ancora resta a ognuno, invece la realtà impone ben altra aspettativa. Quel che è sotto gli occhi di tutti induce a richiedere subito questo atto di clemenza, perché nelle carceri le persone muoiono nel silenzio più colpevole, esse non scontano soltanto una condanna, ma un sovrappiù che consiste nelle sofferenze fisiche e psicologiche, negli abbandoni e nelle rese di una sconfitta che non esprime alcuna pietà.

Il carcere così com’è non funziona, ci sono situazioni devastanti, degradanti: alcune assolutamente non scelte, né mai totalmente descritte dalla cronaca o dalla romanzata fiction televisiva. Ancor più permane il parassitismo strutturale che non consente responsabilizzazione nell’irresponsabile, ma altera e compromette ogni processo cognitivo, creando un’infantilizzazione galoppante e di contro una sorda commiserazione.

Per molti l’indulto o l’amnistia, sono  un atto di clemenza sinonimo di lassismo, di buonismo melenso, di perdonismo anacronistico, un sentimento di pietà impropria. Personalmente ho imparato a mie spese a non incamminarmi per scorciatoie e veloci ammende, e proprio per questo comprendo che quest’istanza che sale alta non è un’intercessione demenziale.

Infatti quale perdono è tale se non è accompagnato da espiazione e risarcimento. E nonostante la mia ritrosia al pagare passivamente quel debito e affidandomi piuttosto al tentativo di riparare in qualche modo al male fatto, posso affermare che in carcere il debito si paga, e lo si paga smisuratamente: perché lontani da ogni umanità.

Ho sentito parlare di teologia dei conti, che un indulto, un’amnistia, non debbono assomigliare a  un colpo di spugna, infatti la trilogia colpa-pena-punizione la si sconta eccome. Essa non è un’astrazione filosofica o limitata al giudice che eroga una sentenza, ma è memoria di ciò che è stato, di chi si è ferito ed ha lacerato.

Tutto ciò è dentro di noi. In carcere non si sta bene, è un luogo di afflizione, ma il sopravvivere abbruttendosi non ha alcun valore di interesse collettivo. Forse da questo atto di clemenza può derivare un ripensamento culturale per cui la pena e il carcere non risultino proiezioni di risentimenti e di vendetta, bensì assunzione di responsabilità commisurate alle reali capacità delle persone detenute.

Vincenzo Andraous

 

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