[di Vincenzo Andraous • 05/10/2000] Spesso mi chiedo qual è il volto nascosto dietro le righe di una notizia. Qual è il volto e la storia dell’ultimo uomo scivolato in “SCACCO MATTO” in un carcere...

CARCERE – SCACCO MATTO

Quanto quest’ennesimo suicidio risarcisce  in termini di umanità, al di là della mera notizia? Per  quanto concerne il carcere, penso che non tutto ciò che accade nell’ambiente penitenziario sia arbitrario, illegale, ingiusto; forse è solo il risultato del “nulla prodotto” per mancanza di un preciso interesse collettivo. Perciò a nulla vale il nuovo Ordinamento Penitenziario, il rafforzamento degli Agenti di Polizia Penitenziaria, e di contro la negazione di ogni pietà attraverso la concessione di un indulto o di una amnistia. Se non interverrà un vero ripensamento-intervento  culturale, c’è il rischio di precipitare all’indietro: in una proiezione dell’ombra che non accetta né consente  spazi di ravvedimento. Non è il caso  di avvitarsi  nel pessimismo –  di arrendersi non se ne parla – perché, come ha detto Don Franco Tassone mio buon amico: “occorre vincere l’ultima battaglia”. Infatti sono  convinto che anche tra le mura di un carcere ci sono uomini consapevoli dell’esistenza di leggi morali, oltre che scritte.  Ci sono uomini che possono riconoscere le leggi dell’armonia sociale, quelle leggi che a  un certo punto si è pensato di poter dimenticare. Penso a quell’uomo, a quel volto, a quel cappio al collo, e intravedo l’importanza di demolire i ghetti mentali, di per sè espressione di quello spirito umano… spesso incatenato.  Penso allora a questa vita, che è tutta da vivere sempre e comunque, proprio perché è un ‘avventura incerta, e incerta significa che si patisce, si soffre, si cade, e si arriva alla coscienza della poca conoscenza, dei tanti motivi che sfuggono. Sto giudicando anch’io che scrivo? Oppure sono impegnato in un dialogo con me stesso e sui problemi della nostra società? Non conosco il volto strozzato in quel carcere, ma comprendo la difficoltà  dell’accettazione del dolore, il che in una parola sottenderebbe assenza di saggezza. So bene  quanto sia difficile agguantarne l’orma, e quanto a volte ciò sembri lontano, sebbene così straordinariamente vicino, al punto da non vederne neppure l’ombra. In un carcere è  difficile perforare quella superficialità che è corazza a difesa, il “muro di niente” contro cui cozziamo e moriamo. E’ davvero difficile raggiungere quella falda profonda a nome interiorità, navigando tra anse e anfratti, scogli e derive per arrivare a quell’essenza che può dirci di cosa siamo capaci, e addirittura svelarci  il significato da dare alla vita. Qualcuno ben più illuminato di me ha detto che, forse, il significato della vita, propriamente,  non va cercato: dobbiamo solo aiutarlo a rivelarsi e quindi accoglierlo. Fuggire da noi stessi, dalla realtà stretta di una cella, annullando il significato della propria esistenza, non giustifica la colpa, né le ragioni che ci inducono a farla finita. Tanto meno indurrà la società a chiedersi se questo ultimo gesto è lecito, e se è morale. Ancor meno spingerà a domandarsi se per caso Dio non sia morto proprio dentro la cella di un carcere, ipocritamente descritto come  un luogo di speranza, mentre permane un luogo di morte.