[di Vincenzo Andraous • 06.02.02] Siamo in un’era dall’impronta maternalistica, dove non c’è accesso al giudizio più consono, perché comporta responsabilità condivise, quindi carichi pesanti da portare e sopportare.

EDUCATORI DEL TERZO MILLENNIO

Un’era dove “attenzione sensibile” sta per accudente protettiva, al punto da sfociare in scuse improponibili che divengono illusoriamente pacificanti; in giustificazioni che travestono di comodo ogni scelta e responsabilità, dove la coscienza rappresenta più un’impalcatura teatrale, che il senso che si è chiamati a dare. Sembrerebbe facile, a questo punto riesumare un’epoca patriarcale: un tempo di limiti che sono regole, di severità che è anche tutela dell’attenzione, di reverenza per un’autorevolezza forte nei messaggi quotidiani e ripetuti. Ma forse, in questa deriva esistenziale, è poco salutare affidarsi alla sociologia spicciola, alle alterne vicissitudini delle scienze umanistiche, come variabile scientifica…il più delle volete impazzita per difetto. Penso a questo nuovo millennio, ai ragazzi che corrono, ai genitori fermi a ricordi indelebili ma irrimediabilmente lontani e trapassati dagli ambiti premi messi in palio dalla lotteria del benessere. Intravedo un accompagnamento educativo solo sulla carta, sulle copertine patinate e colorate di internet, che disegnano approcci educativi d’elite, per pochi, mentre i tanti sono costretti ad arrancare. Stamattina, durante la Santa Messa, ho avuto la fortuna di ascoltare un prete uomo, che non si nasconde nelle “parole valigia “ ( è una sua definizione ), ove tutto sta, sacro e profano, secolarizzazione e Vangelo, misteri vissuti e promesse vane. L’ho ascoltato con passione parlare dell’inverso diritto che alberga in noi: in noi adulti, che lamentiamo le obliquità del futuro e ci avventuriamo in esso, privi di amore autentico, noi che puntiamo il dito sui giovani che troppo spesso delegano ad altri-noi fatica e impegno. Quel prete ha citato “l’abisso del doppio pensiero” di Dostoevskij, nel senso che a volte vogliamo fare del bene  e invece facciamo del male involontariamente, coinvolgendo nei nostri inciampi soprattutto i più giovani, proprio coloro che hanno gambe ancora molli per affrontare la maratona della vita.Educare significa “tirare fuori”, costruire insieme, dico io. Ma è un’era in cui imperversano paccottiglie di ideali, di idee, di bandiere pedagogiche da consumare celermente, perché non c’è più destino legittimo del fare, ma alienazioni, che non ci consentono di scendere nel profondo di noi stessi, né di osservare l’intorno che respira a nostra misura. Come predatori mai contenti, disconosciamo gli atti gratuiti, quegli atteggiamenti che non sono figli di un ritorno premeditato. C’è egoismo, poco o tanto, in ciò che svolgiamo nei riguardi di chi ha bisogno di una guida, per riconoscere ruoli e un’identità a venire. Egoismo, che è richiesta affermata neppure troppo sottovoce, di medagliamenti, di riconoscimenti da parte di chi impone le mani, di chi si ritiene al di sopra dell’errore, come a sfuggire la discesa alla “com-passione”, alla pena del vivere altrui, con la presunzione di poter insegnare a veder le stelle durante un’alluvione di parole spese male. Educatori del terzo millennio, diplomati e…. laureati nella pazienza della speranza, che non è pazienza della disperazione…forse occorre avere occhi “tattili”, essere miniera e minatori, per poter vedere nella polvere più nera uno spicchio di cielo. Quel prete ha chiamato Gesù “servo inutile”, ha chiesto a tutti di diventare servi inutili. In quella Chiesa, visi perplessi, occhi increduli, orecchie alte, ma pochi debbono aver compreso il valore insito del servo inutile. Quello che non si aspetta alcuna ricompensa.