ETTORE MASINA: «LETTERA APERTA A GIORGIO BOCCA»

Caro Bocca, non riesco a togliermi di dosso il disagio che ho provato quando ti ho visto, giorni fa, e sentito, in «Che tempo che fa», trasmissione televisiva che, giustamente, ha una grossa audience fra i giovani. Sei sempre stato un tipo di scorza dura, talvolta persino troppo, ma qui sei apparso non soltanto un vecchio stanco (a 85 anni ne hai bene il diritto) ma un intellettuale rassegnato a considerare l’Italia un paese marcescente, per non dire perduto. Hai detto di avere scoperto che più della metà degli italiani è fascista, che nascere a Napoli è una tragedia irreparabile… e quanto più il conduttore Fazio, spiazzato da tanto pessimismo, cercava di suggerire che le tue erano utili ‘provocazioni’ tanto più tu accentuavi l’aura tragica del tuo dire. Sono certo che in molti abbiamo tratto un involontario sospiro di sollievo quando te ne sei andato.

Io ho sette anni meno di te. Fisiologicamente è poca cosa, e difatti cammino anch’io col bastone; dal punto di vista della storia ‘quegli’ anni sono invece un abisso: tanto per dire, tu hai fatto la Resistenza mentre io ero un ragazzo, confuso. Ricordo come fosse ieri quando arrivasti al «Giorno» di Italo Pietra (doveva essere il 1961 o 62). Ti precedeva una chiara fama di grande giornalista, capace di scrivere in poche decine di minuti un ‘pezzo’ di cronaca di alta classe o di raccogliere in breve tempo prezioso materiale per un’inchiesta su qualche spinoso problema. In occasione del viaggio di Paolo VI in Terra Santa, Pietra mandò te e me a seguire l’avvenimento. Stando insieme a Gerusalemme, vidi con quale  straordinarie dedizione e intelligenza lavoravi.

Ma il tuo arrivo al «Giorno» non aveva significato soltanto il potenziamento di una redazione che andava innovando il giornalismo italiano: era anche -così lo vedemmo in molti- un ulteriore rinforzo alla comune decisione di impegnarci contro ogni rinascita del fascismo. C’era appena stato il governo Tambroni. In quel tempo il giornale veniva assediato dai sostenitori della ‘normalizzazione’, e ci sembrò ottima cosa che l’ex partigiano Bocca si aggiungesse agli ex comandanti partigiani Pietra e Murialdi, redattore capo.

Sono passati anni e anni, il «Giorno» ha agonizzato, noi due non ci siamo più incontrati, ma io, ovviamente, ho continuato a seguire ciò che andavi scrivendo, benissimo. Ruvido come eri, non hai mai cerato di esser simpatico, e anche tu hai preso le tue brave cappellate -per esempio una certa cotta per la Lega-; ma più spesso hai continuato a servire il lettore e la verità, scavando nei sotterranei della democrazia italiana, identificando cialtroni e ladroni e additandoci senza retorica, quando li scoprivi, i protagonisti delle civili battaglie in difesa dello Stato e della legalità. Mentre andava estinguendosi una generazione di giornalisti coraggiosi, tu sei rimasto in attività, con la testardaggine per cui è famosa la gente della tua provincia, senza contorsioni di galatei o di fariseismi. Per questo in molti ti abbiamo voluto bene – e te ne vogliamo. Anche tu, come altri grandi vecchi, ci hai ribadito la necessità di essere fedeli alla Costituzione nata dalla Resistenza, agli ideali che la Resistenza aveva fatto scoprire a un popolo infettato di cinismo dalla sua disgraziatissima storia nazionale. Ci hai chiesto più volte, negli anni scorsi, senza prediche o moralismi, di essere animatori della democrazia, e non suoi distratti utenti o passivi disertori.

Anche per questo quella recente esibizione televisiva di tragico pessimismo (anzi: di desolata resa a una situazione irreparabile) ci ha addolorato e ci è sembrata indegna di te, della tua storia: della tua bella storia di professionista e di cittadino. Vorremmo, se la tua è dolorosa depressione psichica, stringerti con forza la mano, dirti che sei ancora utile all’Italia, anzi: necessario; e poi  che, certamente in molti tuoi estimatori, non condividiamo il tuo lutto per ciò che a te pare (o affermi) definitivamente crollato o cancellato o mai esistito.

Molte delle cose che hai detto nel corso della trasmissione sono vere e niente, davanti ad esse, sarebbe più stupido di un ingenuo ottimismo. Un giornalista non deve cantare ninna-nanne al suo pubblico e forse, anzi, la sua funzione è quella dell’inquietatore, del campanaro che quando è necessario suona ‘a martello’. Ma tu sai bene che la camorra, la ‘ndrangheta, la mafia sostenute per anni dall’andreottismo (e ormai organizzata in eserciti e ditte con centinaia di migliaia di dipendenti) sono soltanto un lato della medaglia italiana.

Dall’altra parte ci sono milioni di persone per bene: di servitori dello Stato che le destre considerano rompiballe a causa della loro fedeltà alle leggi, di insegnanti sottopagati ma amanti del loro mestiere e dei ragazzi con i quali lavorano ogni giorno, di poliziotti onesti e coraggiosi, di coraggiosi e onesti magistrati. Forse nei tuoi lavori di scavo nella palude italiana hai troppo ascoltato ‘professionisti della politica’ e accumulato cifre ufficiali; e hai guardato soltanto con la coda dell’occhio gli anonimi manovali del giusto vivere, i piccoli gruppi dei resistenti allo strapotere del danaro, alla follìa consumista, i volontari votati ai problemi della povera gente, i  quasi silenziosi ma non per questo meno attivi appassionati di una cultura che è l’esatto contrario delle televisioni del Cavaliere e dei loro dirimpettai e omologhi di viale Mazzini. Dalle cooperative della Locride minacciate dalla ‘ndrangheta perchè ne sfidano la prepotenza alle migliaia e migliaia di uomini e donne di buona volontà che invece di discutere accademicamente sulla liceità del velo creano reti di macro-ecumenismo.

Non mi rispondere, per favore, che si tratta di minoranze ectoplasmatiche, incapaci di mutare le dimensioni del sottosviluppo culturale, dell’egoismo rampante dei fans di Berlusconi, del feroce egoismo delle corporazioni, del pressapochismo economico delle destre, pronte a dilapidare il futuro dei nostri figli – e, più, quello dei nostri nipoti. Non mi rispondere con quello che sembra realismo politico: se quel realismo tu non fossi stato capace di sfidarlo con la tua speranza, non saresti mai salito in montagna.

I giovani, oggi, quelli che pensano, sono stufi di ideologie, di dottrine, di parole. Guardano piuttosto alla coerenza dei vecchi che hanno incontrato ai margini dei loro tentativi di crescere; ne mutuano l’atteggiamento nei confronti del  futuro, cercano di scoprire, se esiste, la felicità (ma sì: usiamo questa parola scomparsa. temuta) di certi ricordi di doveri adempiuti. Chi ha visto in anni recenti masse di giovani circondare Arturo Paoli, Pietro Ingrao o padre Zanotelli per ascoltarne non appelli retorici ma necessità etiche testimoniate in una lunga vita, sa quanti e quante giovani hanno fame e sete di speranze, difficili e testarde. Chi ha contemplato con commossa attenzione i Forum Sociali convocati in nome della speranza («Un altro mondo è possibile») sa che esistono ancora nel nostro tempo fonti di chiarità, di generosità, di disponibilità a non arrendersi alla crisi di civiltà che sembra dominarci.

I giovani hanno diritto alla verità, ma anche alla speranza. Se la nostra vita ne ha avuto  i colori, perchè credere che la nostra speranza fosse più legittima delle loro? In nome di quale amore per i giovani dovremmo diventare ‘profeti di sventura’, per usare un’espressione del vecchio papa Giovanni XXIII? Che se poi i nostri acciacchi, la nostra crescente debolezza, la sensazione di essere tumultuosamente sospinti ai margini della società dovessero farci inclinare alla disperazione, allora credo fermamente che noi vecchi dovremmo, se amiamo i giovani, usargli la carità del silenzio.

Ettore Masina

www.ettoremasina.it