[di Luigi Sandri • 07.04.02] Tra gli elementi che formano la miscela esplosiva che ha il suo asse in Gerusalemme vorrei qui metterne in evidenza uno: quello religioso. Il nodo del violento contrasto - storico, politico e sociale - tra ebrei israeliani ed arabi palestinesi è «se» e «come» dividere, o condividere la stessa terra.

GERUSALEMME, QUESTO MASSACRO NEL NOME DI DIO

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E, tuttavia, in questo nodo – come copertura, pretesto o fondamento – vi è anche un filo rosso, quello religioso. Quando i kamikaze palestinesi vanno alla morte, immolando, con se stessi, anche la popolazione civile israeliana, proclamano di agire «in nome di Allah». I leader dei coloni degli insediamenti – presenze imposte che spezzettano ed occupano con prepotenza la Cisgiordania e la Striscia di Gaza – hanno ribadito che, semmai un governo israeliano (eventualità che, con Sharon, essi ritengono irrealistica) decidesse, per far la pace con i palestinesi, il totale ritiro dai Territori, e l’abbandono degli insediamenti, essi si opporrebbero a questa «ipotesi blasfema», perché «abbiamo il diritto-dovere di stare nella Terra promessa che Dio ha dato a noi».
A prescindere da un giudizio sui singoli accadimenti – vi è violenza e violenza, quella dell’aggressore e quella dell’aggredito; quella di chi spara nel mucchio e di chi oppone resistenza – un fatto colpisce: sia in Israele che nei Territori si nota ben poca vigilanza per questo uso sacrilego del nome di Dio.
Ritengo invece che gli uomini di religione, i ferventi credenti, dalle due parti, avrebbero dovuto, e dovrebbero porsi con urgenza e consapevolezza questo problema. Certo, l’impresa è ardua, perché nelle Scritture e nelle tradizioni tanto ebraiche che islamiche è possibile trovare passaggi che sembrano giustificare azioni violente (sempre presentate, per essere religiosamente sostenibili, come legittima difesa). Dove è dunque il confine tra l’assenso intangibile alla Rivelazione in cui si crede, e una interpretazione della stessa Scrittura, o della sacra tradizione, che porti a ritenere non usabili affermazioni scritturali che, verbalmente, parrebbero permettere la violenza o la guerra? Il problema è grave: da una parte, infatti, si rischia il più tremendo estremismo, dall’altra la irrilevanza della Rivelazione. Occorre dunque cercare il cuore santo e profondo di essa.
Spetterebbe prima di tutto a chi professa la stessa religione aprire, all’interno della propria comunità, una riflessione radicale su questo dilemma. Naturalmente, domande si si debbono porre anche dall’esterno di una data religione; ma, prima di tutto, dovrebbero emergere dal suo interno.
Domande come queste in realtà sono state poste ma, forse, in tono minore, e comunque non all’altezza della gravità della situazione. Dopo che il 4 novembre 1995 fu assassinato a Tel Aviv Yitzhak Rabin, a parte l’orrore per l’accaduto, pochi in Israele hanno davvero riflettuto sul fatto che il killer – Yigal Amir, un ebreo israeliano – disse ai giudici di aver agito per punire, in nome di Dio, il «sacrilego» Rabin, in quanto il premier intendeva dare agli arabi Cisgiordania e Gaza, facenti parte, secondo Amir, della Terra da Dio promessa agli ebrei.
Specularmente, non risulta che sia stata fatta una adeguata riflessione teologica, in campo musulmano palestinese, sulle scelte dei kamikaze che si sacrificano in nome di Allah.
Questo silenzio è il segno, da una parte e dall’altra, di un grumo irrisolto, di un pensiero non adeguatamente chiarito, di un dibattito incompiuto.
Il 21 gennaio scorso, convocati dall’iniziativa del primate anglicano George Carey, ad Alessandria d’Egitto i più alti rappresentanti religiosi di Ebraismo, Cristianesimo e Islam in vario modo legati a Gerusalemme, hanno sottoscritto una dichiarazione in cui si afferma: «Secondo le nostre tradizioni di fede, uccidere innocenti in nome di Dio è una profanazione del suo Santo Nome, e diffama la religione nel mondo… Come leader religiosi, noi ci impegniamo a continuare una comune ricerca per una giusta pace che porti alla riconciliazione a Gerusalemme e nella Terra santa, per il bene comune di tutti i nostri popoli». Hanno firmato, tra gli altri, il rabbino-capo sefardita d’Israele, il rappresentante del gran mufti di Gerusalemme, i tre patriarchi cristiani di Gerusalemme.
Ebbene, nei giorni di passione che vive Gerusalemme – cuore di pietra e di sangue di un conflitto devastante, e mentre, per punire alcuni feroci kamikaze, il premier israeliano tiene prigioniero un intero popolo – pochi si ricordano di un patto appena firmato: né per denunciare chi lo infanga, né per esigere fedeltà ad esso, né per chiedere alla propria parte di porsi la domanda estrema se Dio aleggi sulla dinamite o sui cannoncini dei carri armati.
Tale tragica impotenza (in parte riscattata da quei credenti palestinesi, musulmani e cristiani, e da quegli ebrei israeliani che, in questi giorni tremendi, hanno tentato di costruire ponti di solidarietà), tale inquietante latitanza, dovrebbe turbare, prima che i «laici», proprio i credenti. E forse spingere ad iniziare un tempo nuovo, quello del silenzio su Dio e del riferimento a lui, fino a che non si sarà compreso che la sola cosa che Egli desidera è il rispetto della persona umana, sua creatura.
Chi opera la violenza, chi fa la guerra o vi assiste, proclami di agire per la patria, per la gloria, per la giustizia, per la vendetta. Ma proclami di agire per sua responsabilità, o per amore della propria causa o in nome del diritto internazionale. Ma nessuno nomini più Dio in Terra santa. Nessuno, se non quelli e quelle che, in Suo nome, sanno vincere l’odio e chinarsi con amore, anche a rischio della vita, sugli Abele dei nostri tempi. Essi soli siano benedetti, e non quanti nominano invano Allah o Jahve.


Luigi Sandri è giornalista dell’Ansa, autore di “Città santa e lacerata. Gerusalemme per ebrei, cristiani, musulmani” (Ed. Monti).