[di Fritz Vorholz (Die Zeit) • 12.04.02] I paesi ricchi dicono di voler aiutare quelli poveri ma in realtà gli impediscono di uscire dalla miseria. Colpendo le importazioni con dazi esagerati. Non esiste alcun ambito della politica in cui la doppiezza sia così spudorata come lo è nel campo degli aiuti allo sviluppo.

GLI AIUTI CHE NON AIUTANO

Da un lato gli operatori dell’industria della compassione si trovano a fronteggiare sfide colossali: devono alleviare la miseria e la fame, frenare la crescita demografica, risolvere il problema dell’emigrazione, prendersi a cuore i diritti umani, la democrazia e la tutela dell’ambiente. Recentemente è stato loro assegnato anche il ruolo di avamposti civili nella lotta al terrorismo internazionale. Dall’altro lato però a questi stessi operatori viene negato il denaro necessario per affrontare compiti sempre più gravosi. Mentre i capi di stato e di governo dei paesi ricchi promettono da decenni, con molta convinzione, che aiuteranno di più e meglio i paesi poveri, i loro bilanci evidenziano l’esatto contrario. Mai, fino a oggi, i paesi riuniti nel Comitato di assistenza allo sviluppo dell’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo sono stati così lontani dalla meta che si erano prefissati trent’anni fa, quella cioè di devolvere almeno lo 0,7 per cento del proprio Pil ai paesi meno sviluppati. Nel 2000 non sono riusciti a riservare più dello 0,22 per cento alla lotta contro la miseria nel mondo, vale a dire a malapena 54 miliardi di dollari. Meno, cioè, di quanto in Germania viene trasferito ogni anno dall’Ovest all’Est del paese. La comunità delle Nazioni Unite si è riunita a Monterry, in Messico, per un conclave che molti hanno definito “madre di tutte le conferenze”. Dopo tutti i vertici mondiali dello scorso decennio, l’ordine del giorno dei delegati si è ridotto a un solo punto, quello centrale: i soldi, il finanziamento allo sviluppo. Il minimo denominatore è noto. Ci si è limitati al riciclaggio di una vaga dichiarazione d’intenti: “Sollecitiamo i paesi sviluppati a compiere sforzi concreti in vista dell’obiettivo dello 0,7 per cento” è scritto nella bozza di risoluzione di Monterry, per la cui stesura già si sono accapigliati i mediatori del Nord e del Sud, senza peraltro riportare a casa nulla di nuovo se non rimborsi spese; l’unica eccezione sarà qualche regaletto dell’uno o dell’altro capo di governo. Nulla d’impegnativo, solo gesti spontanei. In realtà la posta in gioco va ben oltre le semplici elemosine. Gli aiuti allo sviluppo non sono più la principale fonte di finanziamento allo sviluppo e non lo saranno mai. Nella comunità dei paesi donatori c’è un ampio consenso sul fatto che i paesi poveri devono a loro volta mobilitare  delle risorse per tirarsi fuori dalla miseria. Eppure sono gli stessi ricchi che lo impediscono. Tanto per restare alla magica cifra dello 0, 7 per cento: una crescita delle esportazioni pari a questa percentuale porterebbe ai paesi in via di sviluppo un aumento delle entrate pari all’importo complessivo degli aiuti stanziati ufficialmente. Eppure, con il loro protezionismo, i paesi industrializzati impediscono ai paesi in via di sviluppo di guadagnare quei soldi. Secondo i dati della Banca Mondiale, il mondo ricco colpisce le importazioni  dal mondo povero con dazi che in media sono quattro volte più elevati delle imposte che gravano sui prodotti dei paesi industrializzati. Il protezionismo dei ricchi costa ai poveri cento miliardi di dollari all’anno, vale a dire circa il doppio di tutti gli aiuti allo sviluppo. E’ uno scandalo. Sono proprio i paesi che fanno affidamento sull’esportazione delle materie prime, i più poveri tra i poveri, ad avere più bisogno di essere aiutati in altri modi. E questo non può significare soltanto più aiuti finanziari. Se si vuole che la cooperazione allo sviluppo abbia un futuro dovrà esserci qualcosa in più.