[di GIANFRANCO BETTIN • 21.01.02] Gianfranco Bettin, prosindaco di Venezia, sociologo impegnato nella solidarieta', racconta in questo articolo una visita a padre Alessandro Zanotelli a Korogocho, la baraccopoli ai margini di Nairobi, in Kenia, in cui da molti anni il missionario vive ed opera.

GIANFRANCO BETTIN: APOCALISSE E NATIVITA’ A KOROGOCHO

La donna arriva nel cuore della notte.
Nessuno sta comunque dormendo. Alcuni ragazzi, ubriachi e fatti di colla sniffata, hanno fatto casino fino a poco fa, nei paraggi. Quando si sente bussare alla porta della baracca, padre Alex chiede chi e’ e capisce subito che si tratta di un altro arrivo da Kybera, la baraccopoli sconvolta da giorni da una rivolta violentissima. Korogocho e’ grande, e non manca di persone generose, pronte ad accogliere anche questa sfollata. Serve una coperta, pero’, almeno quella. Alex fruga nella baracca in cui vive da dodici anni – tre stanze, una cucina, una specie di patio con un tetto in lamiera – e che adesso ospita anche noi, per qualche giorno, e infine una coperta la trova. Per questa notte, la donna in fuga, come le altre persone arrivate finora, avra’ un riparo e un po’ di caldo. Le notti sono fresche, infatti, anche adesso che e’ primavera avanzata. A gennaio sara’ estate, ma Nairobi e’ pur sempre una capitale d’altopiano, a molti metri sul livello del mare (il piu’ vicino e’ l’Oceano Indiano, sulla ricca e stravolta costa orientale dell’Africa, paradiso dei fan di Malindi e di riciclati e riciclatori di ogni sorta). La differenza tra il giorno e la notte si sente: se durante il giorno fa caldo, o caldissimo, nelle baracche di fango, cartone e lamiera, quando il sole tramonta la temperatura puo’ scendere bruscamente, anche nel dedalo di vicoli e stradine cieche, nell’immensa baraccopoli disposta a schiena d’asino sulla collina, che ospita un numero incalcolabile di persone. Nairobi avra’ un milione di abitanti “normali”, una piccola parte dei quali benestante, dislocata in centro – tra grattacieli di stampo occidentale – o nei blindati quartieri residenziali, ordinati e verdissimi, dall’aria coloniale e old style, come quello in cui la vecchia casa di Karen Blixen e’ stata trasformata in un museo, dove non mancano, coi cimeli autentici della grande scrittrice danese che vi visse tra il 1915 e il 1931, le pacchiane reliquie del film multi-Oscar di Sidney Pollack con Meryl Streep e Robert Redford. A questo milione di fortunati e di poveri “ordinari”, si affianca – anzi lo circonda – una massa di un altro paio di milioni, o forse piu’, che vive nelle baraccopoli, alcune delle quali battezzatesi “Soweto”, in onore dello slum sudafricano che fu teatro di una famosa rivolta. Le piu’ grandi di queste baraccopoli sono appunto Kybera e Korogocho. Nelle baracche, qui, si paga l’affitto: deve essere uno dei pochi casi al mondo. Ci sono padroni anche negli slums, e del resto chi li abita, a differenza di molte altre realta’ analoghe del mondo, non e’ solo la componente piu’ marginale della societa’ locale. Al sottoproletariato, agli sradicati di ogni sorta, a coloro che praticano in mille modi l’arte di arrangiarsi, si affianca una massa di lavoratori industriali o di addetti ai servizi, gente che lavora quindi niente affatto ai bordi del sistema ma che non potrebbe pagare affitti normali e che, dunque, e’ costretta a vivere nelle baracche. Le baracche consentono a costoro di restare in citta’ e di lavorarvi, pochissimo pagati e ancor peggio trattati, e dunque hanno un ruolo chiave, strutturale, nel sistema sociale e nella realta’ urbana di Nairobi. Il Kenya – “il pericoloso, decadente, saccheggiato e indebitato Kenya”, come lo descrive John le Carre’ nel suo ultimo romanzo, Il giardiniere tenace (Mondadori), una storia di delitti e intrighi di multinazionali farmaceutiche ambientata proprio in questo paese tragico e bellissimo – il Kenya e’ un pezzo d’Africa insieme futuribile (nell’accenno di metropoli moderna che Nairobi e’) e primordiale, selvaggio nelle sopravvivenze naturali, tutelate nei parchi e nelle riserve, a volte con misura e decisione, altre volte in modo velleitario e/o pacchiano. Cosi’, se si va nelle grandi riserve e nei parchi immensi dove circolano i leoni e gli elefanti, le giraffe, le antilopi e i rinoceronti e tutta l’altra fantastica fauna che vi abbonda protetta, ci si sente un po’ trepidanti, temendo di essere li’ a far visita a una fragile reliquia d’altre epoche, o a una vecchissima nonna un po’ male in arnese e che si potrebbe perdere da un giorno all’altro anche se, insomma, viene abbastanza curata nella clinica o nell’ospizio in cui si trova.

Vite nel fango.
Al contrario, il Kenya, l’Africa, che ti viene incontro quando entri a Korogocho o a Kybera o nelle altre baraccopoli e’ forse un continente giovane o giovanissimo, un continente bambino addirittura, quantomeno affollato di bambini, poco o mal nutriti, poco o mal vestiti, poco o mal curati in ogni senso, se non da qualche eroe motivato. Come la protagonista del romanzo di Le Carre’. O come, nella viva realta’, Alex, e con lui i fratelli e le sorelle di fede e tutti gli altri volontari che gli danno una mano e che lavorano a progetti per prevenire o curare o lenire (soprattutto) malattie – a cominciare dalla devastante Aids che implacabile miete vittime – a mitigare le sofferenze della poverta’, a costruire orgoglio e dignita’, e coscienza politica. Sono tutte attivita’ e “missioni” cruciali nel lavoro di Alex Zanotelli, quanto la cura delle anime, in senso letterale vorrei dire, cioe’ la presentazione e la spiegazione della Parola, legittimata da una piena condivisione della vita altrui. Che e’ la vita delle baracche, del fango e della polvere di Korogocho, dei suoi stenti, della sua desolata poverta’, delle sue tensioni strazianti e sconvolgenti, sempre sul punto di esplodere, come questa volta e’ avvenuto a Kybera. Ogni sera, Alex porta questa Parola in una baracca dove celebra la Messa. Con paramenti poveri, ma ricchi dei colori piu’ belli dell’Africa, accompagnato da strumenti musicali indigeni, in un kiswahili ormai sperimentato e fluente, raduna intorno a se’ la famiglia ospitante e le altre che formano la piccola comunita’ cristiana della zona (ve ne sono trentasei a Korogocho, dedite alla cura della comunita’, anima e corpo, e all’ascolto della Parola).
La forza della testimonianza politica di padre Zanotelli, ben nota, puo’ forse offuscare il nitore del suo impegno di fede, ma basta vederlo all’opera tra queste baracche e questi vicoli affumicati, tortuosi, rischiosi, tra polvere, fango e rifiuti, per capire immediatamente che la dimensione di fede resta centrale – che e’ il centro vero, per molti aspetti – del suo impegno. Eppure, cio’ non riduce o depotenzia il suo concreto attivarsi in favore di chi ha bisogno e la portata direttamente politica del suo agire e parlare. Ci dice un ragazzo, un catechista, che “Alex e’ molto importante per l’Africa”, e che ogni volta che va alla televisione kenyana a parlare – ogni tanto gli capita – riesce a interpretare speranze e paure dell’intero continente. Gli spiace molto che debba tornare in Italia, il prossimo anno. Spera che padre Daniele, il giovane comboniano che lo sostituira’, ne ripercorra i passi. Per capire il bisogno vertiginoso di conforto e di rivolta, basta ascoltare Thomas, che oggi ha perso due dita in un incidente di lavoro – faceva il falegname – che gli costera’ anche il licenziamento. Che se ne fa la falegnameria di un uomo con qualche dito in meno? Thomas e’ disperato, anche se e’ circondato dall’affetto dei tre figlioletti e della giovane moglie in una catapecchia che, fra le poche, e’ collegata, abusivamente, alla rete elettrica e puo’ perfino far funzionare un piccolo antiquato televisore in bianco e nero. Questo minimo livello di benessere sara’ spazzato via in poche ore dalla perdita del lavoro, e tutti lo sanno. Per questo sono come schiacciati da una sventura – e per questo, come puo’, Alex cerca di confortarli (e di prestar loro concreto aiuto, anche). Le altre due ragazze che visitiamo stasera sono invece malate di Aids, come troppi qui e in tutta l’Africa, e la speranza sembra averle abbandonate da molto tempo – e avere solo il volto di questi volontari che hanno accettato di venire a vivere qui e di darsi da fare. Scuola, sanita’, trasporti, tutti i servizi essenziali costano troppo per quasi tutti, in questo paese: ci si arrangia da soli, allora, o con l’aiuto di qualche strano eroe venuto da lontano. Anche le altre visite saranno di questo tipo, salvo quelle che ci portano alle sedi delle attivita’ lavorative o di recupero (per bambini di strada o ex prostitute) promosse in questi luoghi impervi socialmente ed esistenzialmente, oltre che materialmente.

Natale in discarica.
“Ce n’e’ sempre una”, scherza Alex, che per questo non riesce quasi mai a giungere puntuale agli appuntamenti. Prima di arrivare alla baracca dove avrebbe tenuto la messa, ieri sera, ha girovagato a lungo, scoprendo ovunque – facendoci scoprire, per lui e’ la norma – lo stesso carico di dolore, solitudine, ingiustizia. E, naturalmente, di rabbia che cresce, che monta, che esplode come a Kybera, o come nella provincia vicina, dove ci si e’ ammazzati per il diritto a pascolare e usare l’acqua dei pozzi. O come nelle parole di due ragazzi, peraltro colti e riflessivi, niente affatto esagitati, che discutendo dell’11 settembre e dell’Afghanistan (i giornali locali riportano la notizia di arresti di presunti membri di Al Qaeda) ci dicono: “The Talibans? They are a very good men. Osama? An idealist”. E’ un’Africa apocalittica, quella vista da qui, che sembra fatta apposta per incupire ancor piu’ l’immagine che ce ne siamo fatti in Occidente: un continente ormai perduto e moribondo, oscuro. Un’immagine che non piace affatto a uno dei principali viaggiatori e conoscitori occidentali dell’Africa, Ryszard Kapuscinski, che contesta questa visione nerissima e che, anzi, dichiara che la “prima cosa che ti colpisce dell’Africa e’ la luce” (Ebano, Feltrinelli). E ha ragione, davvero. “Mount Kenya”, dice l’hostess indicando fuori del finestrino. E’ l’alba, appena spuntata, alle sei, ed esattamente di fronte a noi dopo una notte di volo si staglia l’ombra solenne e svettante, inconfondibile nel suo profilo frastagliato, della montagna piu’ alta dell’Africa dopo il Kilimangiaro. Oltre l’ombra, il cielo si infiamma di luce viola rossa e gialla. La luce dell’Africa, che illimpidisce i cieli e gli orizzonti, e che fa sentire piu’ atroce la sconfinata ingiustizia che illumina. L’Apocalisse attorno a cui riflettono le comunita’ di Korogocho, insieme ad Alex, e’ invece quella biblica, letta e discussa attentamente in questo periodo, con l’ausilio di interpretazioni come quella di Wes Howard-Brook e Anthony Gwyther (L’Impero svelato, Emi, con prefazione dello stesso Zanotelli). Una lettura che vede in questo “disvelamento” un manifestarsi della verita’ intorno alla struttura del mondo contemporaneo, letto sullo sfondo, e con la chiave interpretativa, della vicenda di Roma imperiale. Apocalisse non come catastrofe totale, quindi, ma come crisi di quelle strutture di oppressione e di sfruttamento che sono alla radice anche della tragica condizione odierna di miliardi di uomini e donne. E di bambini e bambini e bambini, viene da dire, guardando alle strade e alle baracche di Korogocho, affollate di piccoli che ti vengono incontro ripetendo sorridenti – sempre sorridenti! – “How are you? How are you?” come un saluto e come una filastrocca. Bambini che quasi sempre vivono solo con le madri – spessissimo abbandonate dai padri dei loro figli e scacciate dalla stessa famiglia d’origine quando restano incinte – e che non di rado vivono da soli, e da soli si arrangiano. Ci sono solo quelli come Alex ad aiutarli, le scuole pubbliche costano troppo (le rette sono aumentate ancora, del 30 per cento, lo scorso anno, provocando un nuovo crollo delle iscrizioni, anche fra i ceti medi: cosi’ restano sempre piu’ spesso solo le opportunita’ educative fornite dai volontari, o dalle scuole delle varie sette cristiane o musulmane che anche cosi’ mirano a far nuovi adepti). Bambini ovunque, bambini soli, come le loro madri, perfino piu’ sole queste ultime: nella baracca accanto a quella di Alex, che serve da centro di accoglienza per donne sole, un giovane artista di Korogocho, che si firma Moses K., ne ha dipinto sulle pareti la “via crucis”, in parallelo a quella di Cristo, dal momento in cui restano gravide all’abbandono alla vita sulla strada, in prigione, e fino alla morte e – speranza e fede – alla resurrezione. Se ci sara’ resurrezione, infine, nessuno puo’ dire, anche se la fede che si vede all’opera qui, e che risuona nelle parole di uno come Alex, lascia scossi, sconcertati, felicemente e drammaticamente provocati. Quel che e’ certo e’ che, di sicuro, c’e’ nativita’, e non solo perche’ nascono bambini comunque, di continuo, e neanche solo perche’ e’ Natale. Perche’, piuttosto, in questo nesso tra Apocalisse – catastrofe e disvelamento – e Nativita’ – rinascita e speranza, opportunita’ – sembra imporsi ogni giorno di nuovo la sfida della vita, e quindi dei suoi diritti e della sua energia insopprimibile. La veglia di Natale di Korogocho quest’anno e’ stata fatta sulla discarica – a “Mukuru” – dove ogni giorno migliaia di persone contendono agli uccelli rapaci e ai topi, e ai propri rivali umani, i rifiuti. Rifiuti da riusare, riciclare, rivendere, o di cui cibarsi. Col popolo della discarica, a mezzanotte, Alex ha detto, nella lingua di Korogocho e di tutta l’umanita’ piu’ consapevole “Mtoto Amezaliwa Yesu Amezaliwa Mukuru”: un bambino nasce, Gesu’ nasce, nella discarica.