[di Giulietto Chiesa • 01.12.01] Riportiamo il testo dell'intervento di Giulietto Chiesa all'incontro "Contro la guerra, contro la globalizzazione della miseria e dell'esclusione: verso Porto Alegre 2002" organizzato dal Forum Mondiale delle Alternative e da Attac Italia alla Camera del Lavoro di Milano sabato 24 novembre 2001

GIULIETTO CHIESA: UNA CRISI INTERNA ALLA GLOBALIZZAZIONE

Tutta la riflessione che sto facendo mi e’ nata dall’esperienza che ho fatto per tanti anni come inviato dall’Unione Sovietica. Se io non fossi stato a Mosca e non avessi visto con i miei occhi quello che la globalizzazione nascente stava facendo in Unione Sovietica, credo che non avrei capito. Mi sono trovato infatti in un luogo emblematico di come l’Occidente stava trattando, con la fine della guerra fredda, un possibile progetto di colonizzazione. Progetto facile, perche’ quando nell’87, ’88, ’89, quando comincio’ la perestroika e quando comincio’ a essere chiaro che la Russia non reggeva, i russi erano pronti a diventare capitalisti, a diventare come noi; nella loro grande maggioranza non aspettavano altro, erano un paese proiettato verso l’Occidente perche’ usciva distrutto, anche moralmente, dall’esperienza sovietica. Ebbene, sono bastati sei o sette anni della “cura americana”, perche’ di questo si e’ trattato, ovvero di un’esportazione violenta, unilaterale, sistematica, dell’ideologia, dei metodi di comportamento, della vita, della pubblicita’, dell’informazione, per creare in Russia una reazione di rigetto totale. Io, riflettendo su quell’esperienza che vivevo dall’interno, pensavo: se l’Occidente non riesce a conquistare un paese che voleva solo diventare occidente, come potra’ conquistare, negli anni che vengono, il resto del mondo che non ha nessuna intenzione di diventare occidente? Che non desidera diventare occidente? Ecco, da qui e’ cominciata la mia riflessione, che poi e’ andata avanti, purtroppo, in modo sempre piu’ galoppante, perche’ la linea intrapresa dagli Stati Uniti con la Russia e’ diventata operativa su scala mondiale, ponendo le basi per le sue piu’ grandi crepe. Dove ci troviamo adesso? Io credo che siamo di fronte a una crisi epocale, di dimensioni che nessuno di noi ha mai conosciuto prima, una crisi mondiale che richiede, da parte di tutti coloro che ci vivono dentro, una vera e propria rivoluzione intellettuale, per essere prima di tutto capita, e per essere affrontata in termini politici. Una crisi mondiale che e’ endogena alla globalizzazione. Non c’e’ una forza che gli si contrappone in modo decisivo e che crea dentro questi processi una contraddizione: questa e’ una crisi interna alla globalizzazione. Questo lo dico perche’ nella tradizione di pensiero marxista c’era l’idea di una forte contrapposizione, ovvero il movimento operaio che si opponeva al capitalismo, costringendolo a modificarsi, ad adeguarsi. Questo contrapposizione ora non c’e’: noi abbiamo si’ un movimento, nato da un paio d’anni, che e’ stato di grande impatto, che e’ stato il prodotto di una crisi, ma nello stesso tempo non e’ ancora sufficientemente forte da creare una contraddizione dentro questo processo. La crisi nasce dall’interno della globalizzazione americana. La crisi nasce dal fatto che quel capitalismo, che e’ stato messo in funzione una trentina d’anni fa e che ha trovato il suo totale sviluppo negli ultimi quindici anni, non e’ piu’ capace di riprodursi. I dati ce lo dimostrano. Prendiamo l’ultimo trentennio: la crescita media annua del prodotto interno lordo mondiale (PIL) si e’ ridotta (lo dicono i dati ufficiali del Fondo Monetario Internazionale e dell’OCSE), anche se tutti i mass media lo hanno celato. La crescita era del 4,4% negli anni settanta, e’ scesa al 3,4% negli anni Ottanta, e’ scesa al di sotto del 3% negli anni novanta, e ora, alla fine del secolo siamo a una crescita che si avvicina disperatamente all’1%, e forse meno. Questo significa che siamo gia’ da tempo in una pesantissima recessione mondiale. Anche questo non ci e’ stato detto. Il sistema dei media e’ centrale in tutto questo discorso. Non ci hanno detto che la recessione era gia’ cominciata, ce lo hanno nascosto, per ragioni comprensibili peraltro, perche’ si temeva che ci sarebbe stato un contraccolpo improvviso nelle borse e nell’economia mondiale. Naturalmente si va in recessione non quando la crescita del PIL mondiale raggiunge la crescita zero: si va in recessione molto prima. Per di piu’, questo sviluppo era tutto americano, perche’ erano gli Stati Uniti che godevano di questa straordinaria crescita, il resto del mondo gia’ da tempo non cresceva (dal ’98): il Giappone era fermo, la Russia era ferma. Gia’ durante la guerra del Kosovo facevo queste considerazioni: “Il sistema della globalizzazione commerciale e finanziaria americana non solo non sta producendo crescita globale, ma sta contraendo i diritti mondiali di crescita. Ci troviamo palesemente di fronte a due fenomeni in formazione: una contrazione della crescita mondiale; la crescita impetuosa e senza sosta dell’economia americana e soprattutto della finanza. In poche parole ci troviamo di fronte a un pericolosissimo scollamento, del tutto inedito, tra crescita dell’economia reale e crescita finanziaria. Ma anche un controllo totale da parte di un qualche potere mondiale comporterebbe decisioni, misure, correzioni che non sempre potranno essere piacevoli, che non necessariamente implicheranno atterraggi morbidi. E se quelli che stanno sul ponte di comando hanno visto tutto questo, ed e’ impossibile che non l’abbiano visto, non puo’ non essersi affacciata loro la domanda su come spiegare agli elettori americani che qualche cosa di spiacevole potrebbe accadere presto, che il livello di consumi cui sono abituati, nel quale sono cresciuti, non e’ sostenibile indefinitamente. Come si potra’ imporre al resto del mondo, quando la crisi si affaccera’ minacciosa, il mantenimento, anzi, l’accentuazione di un sistema di distribuzione diseguale della ricchezza mondiale a vantaggio di un quinto dell’umanita’, non in condizione di espansione, ma di contrazione dei ritmi di crescita, cioe’ in condizioni non di consenso, ma di crescente dissenso?”. Quando scrivevo queste cose era in corso la guerra in Kosovo. In quel momento gli Stati Uniti, con l’Europa consenziente, cambiavano le regole del gioco. Proprio in quel momento a Washington si riuni’ la Nato e cambio’ le regole della Nato: cambio’ i confini d’intervento della Nato, cambio’ i metodi di applicazione delle norme difensive, quasi che nel 1999 gia’ si subodorasse cio’ che sarebbe accaduto due anni dopo. Tutto quello che e’ stato applicato in questa ultima crisi e’ stato preparato nel 1999, a conferma del fatto che qualcuno ha programmato molte delle cose che stanno accadendo. Io uso il termine “ponte di comando” perche’ sono convinto che ci sia un gruppo di comando che sta piu’ in alto persino del presidente Bush, composto da un gruppo ristretto di uomini che hanno le cifre vere dello sviluppo mondiale e che sono abbastanza intelligenti da capire dove portano. Forse non sono abbastanza intelligenti da avere una soluzione per questi problemi. Sono un gruppo di uomini che sfuggono ad ogni controllo, che conoscono le cifre del disastro e che sta trovando una soluzione, la piu’ brutale, terrificante e drammatica: quella di difendere l’America di fronte a tutto il mondo, costi quello che costi. Noi ci troviamo in questo punto esattamente. Credo che questa sia la ragione vera di quello che sta accadendo. La ragione geopolitica della guerra in Afghanistan e’ secondaria. Il fatto che la crisi sia esplosa in Afghanistan, cioe’ nel luogo del cosiddetto “grande gioco” non deve ingannare: la questione del controllo delle risorse e’ una questione importante, ma e’ faccenda del tutto subordinata. Il punto centrale e’ che e’ finita una parte della globalizzazione non piu’ controllabile; chi ha costruito questa globalizzazione capisce che non ha piu’ gli strumenti per gestire il sistema economico. Lo strumento del costo del denaro si e’ rivelato non funzionale: gli americani hanno abbassato il tasso di sconto otto volte nel corso di un anno. Anche in Europa stiamo spingendo verso il basso, ma non si riesce a riprendere perche’ siamo di fronte a una crisi di sovrapproduzione di proporzioni tali che ci vuole ben altro. Tutta l’economia mondiale si regge sostanzialmente sui consumi degli americani. Se i consumi degli americani si contraggono i primi a soffrire una crisi drammatica saranno tutti i paesi del sud-est asiatico e poi tocchera’ anche a noi. Quindi siamo di fronte a una situazione in cui, sia le misure monetarie, che le misure fiscali non funzionano piu’ perche’ questo meccanismo di sviluppo ha portato a una situazione riassumibile in questo dato: da qui al 2004 si dovrebbero produrre 85 milioni di automobili e si sa gia’ che non se ne riuscira’ a vendere piu’ del 40-50%. La conseguenza e’ che diventa necessario sostituire l’egemonia dovuta allo sviluppo con una militarizzazione del dominio imperiale e la fine dello stato di diritto. Questo e’ quello che sta accadendo dopo l’11 di settembre. La versione che ci e’ stata offerta dell’11 settembre, che e’ passata nelle teste di miliardi di uomini su questo pianeta, non e’ vera, o e’ talmente deformata da non essere vera. La prima questione e’ che ci troviamo di fronte a una militarizzazione del dominio imperiale sul piano planetario e alla fine dello stato di diritto internazionale, sostituito con l’assoluta, completa arbitrarieta’ delle decisioni della metropoli imperiale americana. Negli Stati Uniti e’ gia’ stata approvata la legge per l’istituzione di tribunali militari, speciali, con giudici esclusivamente americani, abilitati a crearsi, costruirsi e funzionare fuori dei confini americani per giudicare cittadini non americani, in termini segreti, cioe’ con nessuna esibizione di prove ed accuse contro gli accusati e in grado di somministrare pene capitali fuori dei confini degli Stati Uniti. Voi capite bene che questa norma significa la fine di ogni sovranita’ nazionale, ma anche di ogni stato di diritto. Se questo e’ il contesto noi dobbiamo capire che la battaglia per una mondo diverso e sostenibile si fara’ istituzionalmente e politicamente molto piu’ difficile. L’11 settembre ha avviato in molte parti dell’Occidente una riflessione che sarebbe stata impensabile prima dell’estate di quest’anno. Anche negli Stati Uniti si e’ cominciata una riflessione: una parte dell’intellighenzia americana e delle elite politiche cominciano a rendersi conto della difficolta’ di gestire il mondo con questo criterio. L’altra cosa che ritengo importante e’ che gli sviluppi della crisi attuale, molto accelerati, possono aprire ampi varchi per un movimento mondiale di contestazione alla guerra e alla militarizzazione del dominio imperiale. Io ritengo che la scelta che e’ stata fatta di aprire la guerra in Afghanistan in quel modo e’ una scelta disperata, non razionale. Chi l’ha presa non ha una strategia di lungo periodo, o meglio, ha la strategia di medio corto periodo di avviare una nuova svolta militarizzata del dominio imperiale, ma non ha una strategia, non sa come uscirne. Sono state messe in mezzo dall’11 settembre masse sterminate, 1 miliardo e 300 milioni di musulmani sono stati gettati in questa guerra, che sta gia’ diventando davvero uno scontro di civilta’, perche’ viene vissuto come scontro di civilta’, sia da noi che da loro. Non era uno scontro di civilta’, lo e’ stato fatto diventare uno scontro di civilta’. Questa guerra si sta dilatando nel mondo; loro pensano di poterla controllare con la potenza militare, ma io dubito che siano in grado di farlo perche’ hanno messo in moto delle forze superiori alle loro capacita’ di controllo. In questo sta l’enorme pericolo di oggi: dobbiamo renderci conto che siamo nelle mani di un gruppo di semicriminali disposti a gettarci in una fornace perche’ non ha vie di uscita e perche’ non puo’ invertire semplicemente la rotta (non ci sara’ nessun presidente degli Stati Uniti e neanche nessun dirigente Europeo che avra’ il coraggio di alzarsi in un’assemblea o in una televisione e dire ai suoi sudditi “Cittadini, noi abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni al di sopra delle nostre possibilita’, abbiamo creato un mondo dove non si puo’ sopravvivere e bisogna cambiare”). Questa gente ci sta portando al massacro senza avere nessuna prospettiva diversa. Questa e’ la pericolosita’: perche’ se ci fosse un leader in questo ponte di comando capace di spiegarci dove ci vuole portare, alla fine potrei anche decidere di mettermi una casacca americana, ma la realta’ e’ che non c’e’, ma vedo solo uomini ciechi e assolutamente politicamente irresponsabili (ma guardate la biografia di Bush: questa e’ la gente che ci sta portando al massacro). Noi dobbiamo fare un salto di qualita’ per capire la drammaticita’ assoluta della situazione in cui ci troviamo. Piu’ gente ci sara’ che prova un brivido nella schiena come io provo un brivido nella schiena dopo aver fatto quest’analisi, meglio sara’, perche’ c’e’ ancora un mare di gente che ritiene che questa sara’ una delle tante crisi dalla quale noi usciremo piu’ o meno come e’ avvenuto in passato. Quindi informare, allarmare, inquietare e’ un punto fondamentale. Io ho deciso di non fare il politico e non vengo qui a portare speranze: non lo faccio, programmaticamente. Se qualcuno ha delle speranze lavori perche’ queste speranze si realizzino. Io mi limito a dire lo scenario e, se possibile, a dimostrarlo. Ultimo punto, centrale, dell’informazione. Innanzitutto ritengo che non ci sarebbe questa globalizzazione se non ci fosse stata una trasformazione radicale nel sistema della comunicazione mondiale. Il mondo in cui viviamo e’ un mondo ormai unificato da un possente sistema di comunicazione: questa e’ una novita’ assoluta nella storia dell’umanita’ e crea uno scarto radicale rispetto a tutti i processi di globalizzazione precedenti. Questa caratteristica nuova comporta che una piccolissima minoranza di persone puo’ decidere dei sentimenti di 4-5 miliardi di persone. E se questo sistema non viene democratizzato noi siamo totalmente indifesi, perche’ possiamo dirci quello che pensiamo qui dentro, ma in un solo colpo Bruno Vespa informa della versione ufficiale (una sola) 6 milioni di persone. Dobbiamo dunque organizzarci, costruire delle organizzazioni che comincino a mettere i mass media nella loro collettivita’ sotto scrutinio, li analizzino, chiedano ai giornalisti di rendere conto di quello che scrivono perche’ siano nuovamente responsabilizzati. Ciascuno di noi e’ solo di fronte ai giornali che compra o alla televisione che guarda; esempio: tutto il mondo occidentale pensa che a Kabul le donne si sono tolte il burka e che tutti gli uomini afghani si sono tagliati la barba. Ebbene, queste due notizie, che sono state le notizie cruciali dopo la conquista di Kabul da parte dei mujaheddin tagiki, sono false. Chiunque lo capisce: le donne in Afghanistan hanno ancora il burka e continueranno a tenerlo per molto tempo, perche’ non e’ un bombardamento che cambia i costumi, che piaccia o non piaccia. Ma tutti i giornali hanno messo questa notizia, la quale dice, senza dire, che nel momento in cui i bombardamenti americani sono stati efficaci perche’ hanno costretto i talebani ad andarsene da Kabul, e’ arrivata la liberta’, e la liberta’, ve lo dimostriamo, significa togliere il burka. Tutto questo e’ un calcolo politico, che non e’ stato comandato da nessun ordine esplicito, ma che tuttavia, di fatto, e’ stato fatto dal direttore di Repubblica, della Stampa, del Corriere, dal direttore di tutti i telegiornali italiani. Come mai? Perche’ c’e’ una legge non scritta e tutti la capiscono al volo. Sanno cosa devono dire senza che nessuno glielo dica. E’ un meccanismo formidabile, che funziona automaticamente e ci determina totalmente: gusti, costumi, idee… perche’ esiste il campo di forza del sistema mediatico, che ha le sue regole e queste regole stanno portando il mondo in una strada senza uscita. Io ritengo che Porto Alegre e tutte le tappe successive di questo movimento potranno essere incisive se noi contemporaneamente capiamo che abbiamo bisogno di aprire una discussione di massa sul sistema mediatico. Il minimo risultato che possiamo ottenere e’ di moltiplicare la quantita’ di persone che saranno capaci di dotarsi di un apparato critico per analizzare quello che succede. Per fare questo dobbiamo costruire un’organizzazione capace di portare sistematicamente in modo massiccio, multilaterale, diffuso la coscienza critica nei confronti del messaggio mediatico. (fonte:Centro Ricerca per la pace [email protected] e [email protected])