[di JOHN PILGER • 01.12.01]  John Pilger è uno dei più premiati giornalisti britannici. Nato a Sydney, corrispondente e commentatore di guerra quasi leggendario, ha coperto conflitti in tutto il mondo, dal Vietnam alla Birmania, dalla Cambogia al Medio oriente. Ha vinto due volte il principale premio giornalistico britannico (il "Journalist of the year") e i suoi documentari si sono aggiudicati un'infinità di altri riconoscimenti, incluso un Reporter sans frontieres Award e un Emmy. Il suo ultimo documentario, "The new rules of the world", è sulla globalizzazione. Ha scritto sei libri, tra i quali "Heroes" e "Hidden Agendas", rivelando i retroscena di molti conflitti sanguinosi. I suoi articoli appaiono su Guardian, Independent e New Statesman in Gran Bretagna, New York Times, Los Angeles Times e The Nation negli Stati uniti, The Age e Sydney Mornig Herald in Australia. Ha due figli, vive a Londra.

MENZOGNE UMANITARIE

Gli stati poveri sono “falliti”, quelli che si oppongono “canaglie”, alla fine “noi” civilizzeremo “loro”. Nel vero paradiso del terrore, gli Usa, i media lavorano per rendere normale l’impensabile. 
I guerrafondai della buona società potrebbero non dover attendere molto per il secondo round. Il vicepresidente Usa, Dick Cheney, ha avvertito la scorsa settimana che l’America potrebbe assumere l’iniziativa contro un numero di paesi compreso “tra 40 e 50”. La Somalia, accusata si essere un “rifugio” per al Qaeda, va ad aggiungersi all’Iraq in cima alla lista di potenziali obiettivi. Compiaciuto di avere rimpiazzato i cattivi terroristi dell’Afghanistan con i terroristi buoni dell’America, il ministro della difesa Usa, Donald Rumsfeld, ha chiesto al Pentagono di “pensare l’impensabile”, avendo respinto le “opzioni post-Afghanistan” in quanto “non abbastanza radicali”.
Un attacco americano sulla Somalia, ha scritto un giornalista del Guardian accreditato presso il Foreign Office, “offrirebbe l’opportunità di regolare un vecchio conto: 18 soldati statunitensi furono brutalmente uccisi lì nel 1993…”. Egli ha evitato di menzionare il fatto che i marines hanno lasciato tra 7.000 e 10.000 somali morti, secondo la Cia. Diciotto vite americane meritano un regolamento di conti: migliaia di vite somale no.
La Somalia fornirà una palestra ideale per la distruzione finale del’Iraq. Comunque, come riferisce il Wall Street Journal, l’Iraq presenta un “dilemma” perché “restano pochi obiettivi”. “Siamo arrivati all’ultima capanna”, ha detto un funzionario Usa, riferendosi al bombardamento quasi giornaliero dell’Iraq che non fa notizia.
Essendo sopravvissuto alla guerra del Golfo nel 1991, il controllo di Saddam Hussein sull’Iraq è stato da allora rafforzato da uno dei più spietati embarghi in epoca moderna, fatto rispettare dai suoi ex amici e fornitori di armi a Washington e Londra. Al sicuro nei suoi bunker costruiti dagli inglesi, Saddam sopravviverà a un nuovo blitz – a differenza del popolo iracheno, che è tenuto in ostaggio con la complicità del suo dittatore dalle pretese sempre diverse dell’America.
In questo paese, la propaganda velata giocherà il suo ruolo predominante come di consueto. Poiché tanta parte dei media anglo-americani è nelle mani di vari guardiani di provata fede, il destino dei popoli iracheno e somalo sarà riferito e dibattuto con il rigido presupposto che i governi statunitense e britannico siano contro il terrorismo. Come per l’attacco all’Afghanistan, la questione sarà come “noi” possiamo affrontare al meglio il problema delle società “incivili”.
La verità più saliente resterà tabù. Questa consiste nel fatto che la longevità dell’America come stato terrorista e come rifugio per terroristi batte tutti. E’ indicibile che gli Usa siano il solo stato ad essere stato condannato ufficialmente dal Tribunale mondiale per il terrorismo internazionale e ad aver posto il veto su una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che imponeva ai governi di osservare il diritto internazionale. Recentemente Denis Halliday, l’ex assistant secretary general delle Nazioni unite che ha preferito dimettersi piuttosto che amministrare quella che ha descritto come una “politica di sanzioni genocida” contro l’Iraq, è incorso nell’indignazione di Michael Buerk della Bbc. “Non si può tracciare una equivalenza morale tra Saddam Hussein e George Bush [senior], non è vero?” ha detto Buerk. Halliday stava partecipando a uno dei programmi sulla scelta morale in cui Buerk è presentatore, e aveva fatto riferimento all’inutile massacro di decine di migliaia di iracheni, in gran parte civili, da parte degli americani durante la guerra del Golfo. Halliday ha osservato che molti sono stati sepolti vivi, e che l’uranio impoverito è stato usato ampiamente ed è quasi certamente la causa di un’epidemia di cancro nell’Iraq meridionale.
E’ indicibile che la storia recente dei veri crimini dell’occidente faccia di Saddam “un dilettante”, come ha detto Halliday; e poiché non è possibile confutare razionalmente questa verità, quelli che ne parlano vengono tacciati di “anti-americanismo”. Richard Falk, professore di politica internazionale a Princeton, lo ha spiegato. La politica estera occidentale, spiega, viene diffusa dai media “attraverso uno schermo morale/legale farisaico, a senso unico [con] immagini positive dei valori e dell’innocenza occidentali, dipinti come minacciati, legittimando una campagna di violenza politica senza restrizioni”.
Il potere di cui godono Rumsfeld e il suo vice, Paul Wolfowitz, e i loro collaboratori Richard Perle e Elliot Abrams significa che molta parte del mondo è oggi apertamente minacciata da un fascismo geopolitico, che si è sviluppato a partire dal 1945 e ha avuto un’accelerazione dopo l’11 settembre.
L’attuale gang presente a Washington è formata da autentici fondamentalisti americani. Loro sono gli eredi di John Foster Dulles e Alan Dulles, i fanatici battisti che, negli anni ’50, gestirono rispettivamente il Dipartimento di Stato e la Cia, distruggendo i governi riformisti in un paese dopo l’altro – Iran, Iraq, Guatemala – e riducendo a brandelli accordi internazionali, come gli accordi di Ginevra del 1954 sull’Indocina, il cui sabotaggio da parte di John Foster Dulles condusse direttamente alla guerra del Vietnam e a cinque milioni di morti. Documenti ora declassificati ci dicono che per due volte gli Stati uniti sono stati sul punto di usare le armi nucleari.
I paralleli si trovano nella minaccia di Cheney a “40 o 50 paesi”, e nella guerra “che potrebbe non finire finché siamo in vita”. Il vocabolario del giustificazionismo verso questo militarismo viene fornito da lungo tempo, e da entrambe le coste dell’Atlantico, da quegli “studiosi” fabbricati in serie che hanno tolto l’umanità dallo studio delle nazioni e l’hanno congelata con un linguaggio funzionale al potere dominante. I paesi poveri sono “stati falliti”, quelli che si oppongono all’America sono “stati canaglia”; un attacco da parte dell’occidente è un “intervento umanitario” (uno dei più entusiasti guerrafondai, Michael Ignatieff, è ora “professore di diritti umani” a Harvard). E come al tempo di Dulles, il ruolo a cui è ridotta l’Onu è quello di rimuovere le macerie dei bombardamenti e fornire “protettorati” coloniali.
Gli attacchi alle torri gemelle hanno dotato la Washington di Bush di un grilletto, ma anche di una coincidenza notevole. L’ex ministro degli esteri pakistano Niaz Naik ha rivelato che a metà luglio alcuni alti funzionari americani gli avevano detto che l’azione militare contro l’Afghanistan sarebbe partita avanti a metà ottobre. Il segretario di Stato Usa, Colin Powell, in quel momento era in viaggio in Asia centrale, e già raccoglieva il sostegno per una “coalizione” di guerra anti-Afghanistan. Per Washington, il vero problema con i Taleban non erano i diritti umani; questi erano irrilevanti. Semplicemente, il regime talebano non aveva il controllo totale dell’Afghanistan: fatto che impediva agli investitori di finanziare gli oleodotti e i gasdotti provenienti dal Mar Caspio, la cui posizione strategica in relazione alla Russia e alla Cina e i cui giacimenti fossili largamente intatti sono di interesse cruciale per gli americani. Nel 1998, Dick Cheney disse ai rappresentanti dell’industria petrolifera: “Non so pensare a un momento in cui una regione sia emersa altrettanto improvvisamente per diventare così significativa strategicamente come il Caspio”.
In verità, quando andarono al potere nel 1996, i Taleban non furono solo bene accolti da Washington. I loro leader volarono in Texas, all’epoca governata da George W. Bush, e furono intrattenuti dai dirigenti della compagnia petrolifera Unocal. Fu offerta loro una fetta dei profitti degli oleodotti: si parlò del 15%: Un funzionario Usa osservò che, con il passaggio del gas e del petrolio del Caspio, l’Afghanistan sarebbe diventato “come l’Arabia Saudita”, una colonia petrolifera senza democrazia e con una persecuzione legalizzata delle donne. “Possiamo convivere con questo” disse. L’accordo andò a monte quando due ambasciate americane furono bombardate in Africa orientale, e la colpa fu attribuita a al Qaeda.
Sui media i Taleban sono debitamente passati in cima alla lista dei demoni, una lista a cui si applicano le normali esenzioni. Ad esempio, è esentato il regime di Vladimir Putin a Mosca, responsabile dell’uccisione di almeno 20.000 persone in Cecenia. La scorsa settimana Putin è stata intrattenuto dal suo nuovo “amico intimo”, George W. Bush, nel ranch di Bush in Texas.
Bush e Blair sono esentati permanentemente – anche se ogni mese muoiono più bambini iracheni, in gran parte a causa dell’embargo anglo-americano, del numero totale dei morti delle torri gemelle: una verità che non viene messa a conoscenza dell’opinione pubblica. L’uccisione di bambini iracheni, come l’uccisione dei ceceni, come l’uccisione dei civili afghani, è ritenuta meno abominevole dal punto di vista morale che l’uccisione di americani.
Avendo assistito a una quantità di bombardamenti, sono stato colpito dalla capacità di coloro che si definiscono “liberali” e “progressisti” di tollerare deliberatamente la sofferenza degli innocenti in Afghanistan. Che cosa hanno da dire questi commentatori presuntuosi, che non vedono virtualmente nulla delle lotte che avvengono nel mondo esterno, alle famiglie dei rifugiati bombardati a morte nella polverosa città di Gardez l’altro giorno, molto dopo che questa era caduta in mano alle forze anti-talebane? Che cosa hanno da dire ai genitori dei bambini morti i cui corpi giacevano sulle strade di Kunduz domenica scorsa? “Quaranta persone sono state uccise” ha riferito Zumeray, un profugo. “Alcuni di loro sono stati bruciati dalle bombe, altri sono stati schiacciati dai muri e dai tetti delle case quando sono crollati per l’esplosione”. Che cosa gli può rispondere Polly Toynbee del Guardian: “Non vedi che il bombardamento funziona?” Lo definirà un anti-americano? Che cosa possono dire gli “interventisti umanitari” alle persone che moriranno o resteranno mutilate per le 70.000 “cluster bombs” rimaste inesplose?
Da molte settimane l’Observer, un giornale liberal, sta pubblicando resoconti privi di riscontri che hanno cercato di collegare l’Iraq con l’11 settembre e la paura dell’antrace. I principali narratori di questa storia sono “Fonti di Whitehall” e “fonti di intelligence”. “Le prove si stanno accumulando…” recitava uno degli articoli. La somma delle prove è “zero”, fumo negli occhi per la gioia di Wolfowitz e Perle, e probabilmente Blair, che probabilmente proseguirà con l’attacco. Nel suo saggio “The Banality of Evil”, il grande dissidente americano Edward Herman ha descritto la divisione del lavoro tra coloro che disegnano e producono armi come “cluster bombs” e “daisy cutters”, coloro che prendono le decisioni politiche di usarle, e coloro che creano le illusioni che ne giustificano l’uso. “Tocca agli esperti e ai grandi media – ha scritto – normalizzare l’impensabile per il pubblico medio”. E’ tempo che i giornalisti riflettano su questo, e si assumano il rischio di dire la verità su una minaccia spropositata a molta parte dell’umanità che nasce non in luoghi lontani, ma vicino a casa.(Traduzione di Marina Impallomeni)