[di Vincenzo Andraous • 26.11.01] Sui giornali leggo interventi mirati sul carcere, parole espresse con buona volontà da uomini pratici di promozione umana. Lo dico io che sono stato vissuto dal carcere, trapassato e segnato fino a farmi sentire parte del suo sé. Perché la galera ti respira a fondo rubandoti i giorni a venire.

CARCERE- RIEDUCARE NON SOLO A PAROLE

Questo pianeta di cui poco si sa e meno ancora si pensa è un contenitore di carne umana destinata a imputridire, tra l’indifferenza o il gaudio dei più. Ho pensato mille volte a questo carcere che alimenta un’esistenzialismo umbratile, dubbioso, precario. Forse occorre finalmente vivere-vivendo senza più lasciarsi respirare passivamente, e tenacemente prendersi in braccio e stringere i denti, senza più ostinati silenzi in cui rifugiarsi. Ma come fare se il carcere attuale è davvero malato, se manca degli strumenti per incidere e fare maturare le personalità latenti, se non possiede un ideale che possa infine piegare a una proficua utilità la pena? Nè è capace di partorire una speranza vera, destrutturando-ristrutturando ciò che rimane dei brandelli di vita ritrovati. Scrivo queste righe senza presunzione di conoscere la strada maestra, ma consapevole dell’esperienza che sto vivendo in prima persona. Infatti, nonostante il carcere e gli anni trascorsi dietro le sbarre, oggi sono qui nella comunità la “Casa del Giovane” di Don Franco Tassone, successore dell’indimenticabile Don Enzo Boschetti ( che qui aleggia dappertutto ). E qui, pur permanendo la mia condizione di detenuto, mi è stato concesso di svolgere il ruolo di tutor. Mi sento parte di questa nuova cultura dell’intendere e del sentire, e sento vive le parole del fondatore di questa comunità, Don Enzo Boschetti: “ Si educa, e si rieduca, solo con la libertà e nell’amore, perché solo nella libertà e nella fiducia reciproca costruita pazientemente e tenacemente, si può costruire e rinnovare una personalità”. In questo senso sono qui a imparare molto e a dare quanto è nelle mie capacità. Il carcere con i suoi molteplici contorcimenti, forse è addirittura irrappresentabile se non lo si tocca con mano.  Mi piace quindi significare un tragitto diverso, un cammino, sì, difficile, ma più vicino alle aspettative reali. Un tragitto che consenta un effettivo reinserimento sociale a fronte di una progettualità costruttiva che renda meno ostico il rientro nella collettività. In questa comunità, dove non sono più solo un ospite, ma parte integrante, mi rendo conto della differenza nel modo di operare e di affrontare una stessa esigenza “pedagogica”: il trattamento personalizzato. Infatti all’interno di una prigione, se è vero che l’Ordinamento Penitenziario prescrive un trattamento personalizzato, è altrettanto vero che, a causa dei problemi endemici all’Organizzazione Penitenziaria, il tutto risulta piuttosto aleatorio. Qui, nella “Casa del Giovane”, dove comunque esistono regole precise e finalità ben concepite, e dove tutto si basa sull’amore e sul rispetto reciproco, ognuno si sente parte del proprio progetto di vita. Ciò perché non esiste assistenzialismo parassitario, ma impegno e lavoro, fatica e sacrificio, per il raggiungimento di una meta che consiste in un agire comune per obiettivi comuni. In carcere per i motivi più volte sottolineati – la scarsezza di finanziamenti, di Operatori specializzati, di richiesta e offerta sul mercato del lavoro – ogni sforzo è destinato a rimanere lettera morta, e poco importano i pochi casi ben riusciti a fronte dei tanti fallimenti e peggio dei troppi detenuti in lista di attesa. Un uomo ristretto costa al popolo italiano oltre 300 mila lire al giorno, eppure il degrado e la inefficacia trattamentale rendono il più delle volte questa spesa “ terribilmente superflua”. Allora perché non credere di più nelle capacità di promozione e recupero umano offerte dalle comunità, in particolar modo dalla “Casa del Giovane” per il territorio pavese? Perché non destinare alle comunità i fondi necessari e sufficienti per poter intervenire sulle diverse tipologie di reati e di persone? Occorre prendere atto dell’opportunità di quantificare e amplificare qualitativamente il concetto di solidarietà costruttiva ( e non solo protettiva ), che miri al raggiungimento di una solidarietà anche produttiva, perché nell’aiutarsi reciprocamente, nell’impegnarsi vicendevolmente è sottesa la capacità di ognuno di crescere e compiere il proprio cammino non soltanto interiore, ma proiettato all’inserimento lavorativo esterno alla comunità stessa ( come del resto dovrebbe avvenire in un carcere a conclusione della condanna espiata). Quanto fin qui detto non nasconde le difficoltà in cui opera anche questa comunità, quel che importa, come diceva il suo fondatore e come testimonia il suo successore Don Franco: “ Non è mai lecito arrendersi…Per vincere bisogna lottare, perché si vince quando non si perde l’ultima battaglia”. Per restituire al carcere la sua vera funzione, potrebbe essere salutare e intelligente, come alternativa alla deresponsabilizzazione-infantilizzazione dilagante, alla inutilità della pena fine a se stessa, affiancare il servizio offerto dalle comunità ( per ora affidate a pochi privati e sacerdoti ), che consente di recuperare l’individuo non solo attraverso la fede che professa, ma anche e soprattutto attraverso il riconoscimento di ciò che in ciascuno incombe; la responsabilità di ” ritrovare e ricostruire se stesso”. Come tanti altri ragazzi qui con me, anch’io ho un vissuto deviante, diciamo pure criminale, e in questa dinamica educativa-formativa-autorealizzante mi viene da dire che: ci siamo messi il passamontagna tante volte, occorre avere il coraggio di togliercelo. Perché se metterlo è un atto di forza, toglierlo è un atto di dignità.