[Roberto Buttura • 26.04.04] Il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale per il 2004 e la successiva ripartizione del Fondo sanitario interregionale (che ha sostituito il Fondo sanitario nazionale) hanno offerto un’ulteriore occasione per assistere ad un incomprensibile dibattito prima tra Stato e Regioni e poi tra le Regioni...

GLI IMMIGRATI E IL FINANZIAMENTO DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE

Il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale per il 2004 e la successiva ripartizione del Fondo sanitario interregionale (che ha sostituito il Fondo sanitario nazionale) hanno offerto un’ulteriore occasione per assistere ad un incomprensibile dibattito prima tra Stato e Regioni e poi tra le Regioni.
Come si sa, la spesa sanitaria pubblica italiana si aggira attorno al 6 per cento del prodotto interno lordo (Pil), ben al di sotto di altri paesi industrializzati, e anche la spesa cosiddetta privata è contenuta al di sotto del 2,4 per cento, quindi altrettanto virtuosa comparata con i medesimi paesi.

Oltre a ciò si deve rammentare che nell’anno 1999 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), a conclusione di un lavoro di confronto su complessi parametri, aveva annunciato che il Paese in possesso della migliore organizzazione per la tutela della salute era la Francia seguita dalla tanto bistrattata Italia. Gli Stati Uniti, tanto per citare un paese che i nostri politici conservatori vorrebbero imitare, si piazzavano al posti n. 37 della graduatoria. A scanso di equivoci, è giusto sottolineare che l’OMS non è un covo di pericolosi sovversivi, ma un’organizzazione, di cui socio finanziatore è anche la Banca Mondiale, accusata più volte al pari di quest’ultima di tutelare gli interessi di ristretti circoli finanziari statunitensi, operando all’interno di una cultura e di una logica di mercato, anziché quelli della ben più ampia popolazione mondiale.

Detto questo per ricordare che la nostra situazione non è catastrofica come viene a volte dipinta, ritorniamo ad occuparci del nostro Servizio sanitario sul cui funzionamento pesa comunque una sottostima del fabbisogno finanziario, oltre ad una ben più grave mancanza di programmazione e di progettualità, queste sì catastrofiche, accompagnate dalla negazione degli investimenti indispensabili. L’ultima grande operazione di questo tipo si è verificata con l’articolo 20 della legge finanziaria 67/1988 quando furono stanziati 30.000 miliardi di lire da spendere in dieci anni per ammodernare e riorganizzare il Servizio sanitario Nazionale.

Il famoso accordo dell’8 agosto 2001 tra il Governo (Tremonti) e le Regioni che avrebbe dovuto chiudere definitivamente il contenzioso ricorrente sulla sottostima del fabbisogno, non ha retto lo spazio di un mattino. Dalla discussione in atto, è possibile ricavare che i principali imputati del costante, accentuato sforamento sono due: il cosiddetto federalismo sanitario inaugurato con il decreto 56/2000 e i contratti di lavoro.

Fatto sta che l’unica cosa sulla quale esiste certezza da parte dei nostri governanti è che nessuno è in grado di stabilire l’entità delle spese accumulate dalle singoli Regioni e le stesse hanno più di qualche difficoltà a capire la situazione finanziaria delle proprie aziende sanitarie. L’inseguimento ebete al mito federalista ed autonomista si è spinto fino ad eliminare la legislazione nazionale e regionale sui controlli che costituiscono volente o nolente la differenza tra ambito pubblico e ambito privato.

Come è immaginabile la discussione tra Stato e Regioni ha avuto caratteristiche tragicomiche di totale incomprensione delle reciproche posizioni e ragioni. Tremonti riteneva congrua la somma stabilita per il finanziamento del Fondo, accusando le Regioni di non aver posto in atto molte delle manovre previste dall’accordo 8 agosto 2001, le Regioni accusavano lo Stato di aver sovraccaricato con la propria legislazione i loro compiti senza prevedere un adeguato accompagnamento economico. Uno stallo completo, insomma, fino a quando la cosiddetta “finanza creativa” è riuscita a compiere un nuovo miracolo, trasformando ciò che era stato considerato un peso, se non di peggio, in una “risorsa”.

L’immigrato, cioè l’entità sulla quale più di qualcuno ci ha speculato sopra costruendo le proprie fortune elettorali, è diventato ad un tratto di fondamentale importanza ai fini del finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, in particolare colui che ha sanato la posizione in base alla legge Bossi-Fini. Tutte le Regioni, dalle Alpi a Capo Passero, hanno nominato l’immigrato simbolo del funzionamento della sanità. Inconsapevole, egli è passato da soggetto negativo a baluardo del diritto alla tutela della salute, senza nemmeno transitare attraverso il riconoscimento come persona.

Sull’immigrato le Regioni sono andate al combattimento corpo a corpo nei confronti dello Stato e, una volta passata la linea e acquisiti i baiocchi, sempre in nome dell’immigrato hanno ferocemente litigato tra loro. Non è finita qui, perché successivamente altra battaglia all’interno di ogni singola Regione, con l’immigrato ancora una volta protagonista, per l’ulteriore ripartizione (incluso il correttivo immigrati) tra le proprie aziende sanitarie.
Allo stato, non risulta che alcuno dei protagonisti di questa tipica vicenda “all’italiana” abbia provato o stia provando un minimo di vergogna per l’accaduto.

Nessuno, infatti, ha posto obiezioni di carattere etico –che pure ci sono e grandi come una casa- a un tale modo di procedere. Nessuno ha posto questioni di merito come ad esempio il fatto che, essendo il nostro Servizio Sanitario Nazionale finanziato attraverso la fiscalità generale, tutti coloro che lavorano in modo regolare contribuiscono per la loro capacità fiscale a determinarne il suo funzionamento, indipendentemente dal loro status civile. Ciò significa che se il fabbisogno è sottostimato va fatta una battaglia per il suo adeguamento, senza rifugiarsi dietro foglie di fico che non servono a nascondere le vergogne ma ad esaltarle.
 
ROBERTO BUTTURA


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