[Claudio Monici (Avvenire) • 08.02.04] A Ikotos, nella contea di Torit, vivono dodicimila Persone, i pozzi per abbeverarsi distano un giorno di Marcia dal villaggio. E per metà sono rotti Molti costretti a vivere nascosti nella boscaglia Non si conosce l'uso dell'aratro e del carro. Tutto è rimasto come ai tempi di Daniele Comboni...

I DIMENTICATI DEL SUDAN

Un giovane cacciatore di etnia Lotuko, nudo, arco e frecce in spalla, torna con il carniere pieno. Bottino sette adioro, topi. Non c’è età per andare a caccia nella savana. I bambini diventano grandi quando sono in grado di distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male. Così come il piccolo cacciatore che ci passa accanto, mentre all’imbrunire se ne torna alla sua capanna. Ha 12 anni e la sua scuola quotidiana è un’escursione in cerca di cibo. Quello che trova. Per lui, le gazzelle sono ancora troppo veloci. Il suo nome, nella lingua dei Lotuko, significa «notturno», perché quando è nato in questa boscaglia era notte. Se la fortuna lo accompagnerà, diventerà adulto e dopo arco e frecce, imbraccerà le armi. Che non mancano, dopo più di vent’anni di guerra, in Sud Sudan. Ci siamo accampati in questo piccolo insediamento di capanne, ai piedi dei Monti Imotong, che fanno da frontiera tra Sud Sudan e Uganda. Due ore di volo da Kampala (Uganda), a bordo di un «Cessna 206» della «Maf» (Mission aviation fellowship), prima di toccare terra su una striscia di sabbia rossa nel villaggio di Ikotos, contea di Torit. Altre due ore di jeep per cinquanta chilometri di pista in mezzo alla boscaglia e una marcia a piedi. La missione è quella di perlustrare, per la prima volta dopo dieci anni, alcune zone abitate e rimaste isolate, escluse da qualsiasi intervento umanitario. Difficile sapere quanta gente ci abita. Raggiungiamo Pietro Galli, responsabile emergenze per conto di Avsi (Associazione volontari per il servizio internazionale, organizzazione non governativa italiana presente in 32 Paesi con 70 progetti) e il medico milanese Andrea Bornati. Sono nel maquis già da una settimana, ne hanno altre quattro davanti. Raccoglieranno dati e informazioni per valutare le condizioni di vita della gente in oltre trenta comunità, per poi avviare un progetto di aiuto già studiato dall’Avsi che punterà su acqua, sanità e istruzione. Qui mancano le cose più elementari. E se ci sarà la pace dopo gli accordi di Machakos in Kenya, la sfida sarà quella di intervenire in tempo per ricostruire il Paese, da zero.

Una clinica sulla jeep
Nella jeep lo spazio è riservato a tre scatoloni di medicinali che servono al medico per le sue visite. Una clinica mobile che fornisce assistenza in media a un centinaio di individui, mattina e pomeriggio. Senza pausa pranzo, anche se il caldo è implacabile. Anche se Pietro e Andrea hanno cinque settimane di tempo, bisogna sfruttare pure i minuti. Soprattutto adesso che la tregua regge. Si beve acqua di pozzo e si dorme in radure dove lo scorso anno c’è stata un’epidemia mortale di febbre gialla. La malaria è endemica, il morbillo uccide, in terra strisciano cobra e scorpioni. Ma non solo: si battono piste dove esiste il serio pericolo delle mine e c’è il rischio di  cadere in una imboscata. Pietro e Andrea per entrare in Sudan hanno attraversato il nord Uganda in jeep, infestato dai ribelli dell’Esercito di liberazione del Signore.

Acqua, primo problema
In Sud Sudan, gli adulti sono quasi tutti armati: se non è la guerra tra nord e sud è per via delle tensioni tribali per il possesso delle mandrie. La ricchezza del luogo, la moneta da razziare per poter contrarre un matrimonio e garantire la continuità ancestrale della tribù. È l’acqua il primo dei grandi problemi del Sud Sudan. Acqua pulita significa salute. I pozzi distano anche una giornata di marcia a piedi. Molti sono rotti, altri inquinati. Ma la gente beve comunque. Quelli nuovi non si possono scavare perché non ci sono trivelle e poi come portarle fino a qua, senza strade asfaltate, nella savana dove spesso non possono atterrare neppure i piccoli Cessna? A Ikotos vivono 12 mila persone e ci sono solo otto pozzi, la metà sono rotti. Per scavare un pozzo occorrono 9 mila euro.

Vivere nella boscaglia
Quella del Sudan è la più lunga guerra civile mai combattuta, ed è cominciata proprio a Torit. Ha fatto più vittime di Bosnia, Kosovo e Ruanda messi assieme e provocato milioni di profughi. Troppi costretti a vivere nella boscaglia, dove non si conosce l’uso dell’aratro né del carro. Tutto è rimasto come ai tempi di Daniele Comboni. «Per muoversi in questi spazi – scriveva un esploratore dell’epoca – bisogna pensare e provvedere a tutto, altrimenti le conseguenze possono essere fatali». Anche oggi. Poi bisognerà pensare al ritorno dei profughi, 4 milioni quelli interni, centinaia di migliaia dispersi oltre confine. Bambini come il cacciatore Lotuko non hanno perso solo i loro anni migliori nel cercare di sfuggire alla guerra. Sono generazioni che hanno perduto qualcosa di molto più importante per il loro futuro: l’istruzione. Ci hanno pensato gli Antonov del governo di Khartoum a bombardare le scuole di paglia e legno.

Mai visto l’uomo bianco
Sotto un grande albero, gli anziani ci danno il permesso di stendere stuoie e sacchi a pelo. La guida accende il secondo fuoco e nella pentola ci mette i fagioli, in un’altra già bolle il posho, polenta di farina bianca. Una squadra di bambini, incantati dalla nostra presenza, se ne stanno immobili, seduti su un masso. Molti non hanno mai visto l’uomo bianco e nemmeno la nostra lampada a gas. Le donne per tutta la giornata hanno macinato il sorgo sfregando pietra contro pietra, oggi come centinaia di anni fa. A schiena curva, avanti e indietro. Giorno dopo giorno, la stessa dieta. Sembra ancora preistoria quando ci si corica circondati da piccoli fuochi che brillano qua e là, avvolti da un brusio senza volto.

Il ritorno dei guerriglieri
All’Equatore il buio scende veloce. Una falce di luna bianca illumina il passaggio di una mandria di vacche e poi un gruppo di uomini armati. Sono guerriglieri dell’ Spla, Esercito di liberazione del Sud Sudan. Gli uomini tornano da quel nero contorno dei monti dove si nascondono i ribelli ugandesi del Lra, Esercito di liberazione del Signore. A meno di trenta chilometri da qui c’è la città di Torit. Sotto controllo dell’esercito regolare sud anese. Tra Spla e soldati di Khartum dal novembre del 2002 è tregua, e c’è molta attesa per una pace che sembra a portata di mano. Mentre con i ribelli del Lra, per ragioni strategiche sostenuti dai governativi sudanesi, il fronte resta aperto.

Il rumore del machete
Da queste parti l’Lra lo chiamano «Tong-tong», una parola che richiama il rumore provocato dal machete che i ribelli ugandesi sono soliti usare per mutilare le loro vittime. Nella contea di Torit, vivono 250 mila persone. Ognuna con un problema, ma tutti portati dalla guerra. Parte in jeep, parte a piedi, visitiamo e ci accampiamo in sei insediamenti. È la guida di Avsi, il collaboratore sudanese Savio, che ci presenta ai capi, agli anziani. Aiuta a conquistare la fiducia di uomini che vestono di stracci, maglie senza più forma e pantaloni strappati. L’accoglienza è buona, soprattutto perché c’è il dottore e dopo anni, finalmente, qualcuno è venuto con le medicine: per la tenia, la scabbia, la malaria, la vitamina C. Le cose più elementari, qui introvabili. L’ospedale più vicino, se così si può definire una struttura dove i pazienti, spesso dormono all’aperto, è a quattro giorni di cammino. Un’appendicite o la necessità di un parto cesareo, uccidono prima.