I MISERABILI A STELLE E STRISCE

Un pranzo di lavoro come tanti. A un certo punto però lo scambio conviviale di opinioni affronta il mondo del lavoro statunitense e sulle inquietanti statistiche che attestano sì la piena occupazione, ma che negli Usa la maggioranza della forza-lavoro è costituita da working poor, lavoratori poveri che percepiscono salari di fame per lavori degradanti e nessun diritto. Lei, secca, apostrofa il suo editore: «Ci vorrebbe un giornalista giovane che viva per un anno come un lavoratore povero e tirarci fuori un libro che denunci questo scandalo». La risposta è altrettanto concisa e non le lascia via di fughe: «Giusto: una come te».
E’ l’avvio di un reportage sull’universo lavorativo americano di questo inizio di millennio. Un libro costruito con cura, senza nessun ammicamento retorico su un paese che sbandiera la libertà come il suo valore più alto ma che costringe a una vita «infame» oltre il sessanta per cento della sua forza-lavoro. Una vita segnata da corpi abbrutiti da giornate lavorative che si sa quando iniziano, ma mai quando finiscono. Ma anche di biografie marchiate dall’arbitrio, dall’umiliazione, dal dispotismo di un capetto che si sente di esercitare il ruolo di padre-padrone solo in virtù di un reddito decente, di una assicurazione sanitaria, di una casa di proprietà e di una automobile.
Il volume – Una paga da fame, Feltrinelli, pp. 164, euro 13.50 – è scritto da Barbara Ehrenreich ed è uno spaccato sugli Stati uniti di oggi e ruota attorno ai lavori svolti per circa due anni dalla protagonista che cela la propria identità di affermata professionata della carta stampata. Per prima cosa si trasferisce in Florida per fare la cameriera in una grande catena di alberghi. Poi passa nel Maine per pulire le case dei ricchi. Infine giunge nel Minnesota per fare la commessa in una grande catena di supermercati dell’abbigliamento. Tutti i suoi datori di lavoro sono manager di medio livello in una grande corporation che fonda la sua ricchezza nel vendere in franchising il proprio logo. L’orario di lavoro è formalmente di otto ore, ma gli straordinari sono obbligatori e non vengono pagati. Il salario, infine, non supera mai i sette dollari all’ora e che spesso è al di sotto del «salario di ingresso» statunitense definito di stato in stato. Già perché negli Usa la legislazione sul lavoro è abbastanza diversa da quella vigente in Europa e vale il principio che il salario di ingresso (leggi minimo) venga definito per legge non a livello federale, ma sia prerogativa di ogni singolo stato (in Italia potremmo parlare di gabbie salariali, grazioso regalo avvelenato che ci vuol fare l’attuale governo in carica). I regolamenti sulle assicurazioni sanitarie sono sempre gli stessi: se ne ha diritto, ma solo dopo un periodo di prova, dai tre ai sei, nove mesi, a seconda del capriccio della sede locale dell’impresa. Periodo che pochi riescono a superare, dato i ritmi a cui si è costretti, la denutrizione che riduce a larve e che ti costringe a cercare altri part-time per integrare il salario. Secondi e terzi lavori della stessa specie, ma che hanno come effetto «collaterale» milioni di infortunati sul lavoro (mai denunciati per paura di essere cacciati).
Ci sono pagine «poetiche» sui rapporti della giornalista con i suoi compagni di disgrazia, segnati da sentimenti diversi e contrastanti, un misto di mutuo soccorso – nel sendo di fornire cibo a chi non ne ha – e la diffidenza tipica di chi è inserito nel processo lavorativo in una condizione di servilismo. La maggioranza sono donne con una storia pesante sulla spalle (spesso sono le uniche che «portano i soldi a casa») e che devono lottare con le unghie e con i denti contro chi, proprio perché donne, esprime dubbi sulla loro natura «umana». Barbara Ehrenreich scrive di «sorellanza»: con cautela, però, perché la condivione della stessa situazione è in negativo, cioè sulle privazioni e non sulla necessità di rompere il meccanismo che le costringe a vivere come vagabonde. Vagabonde perché gli affitti sonoalti e bisogna dormire: in un motel puzzolente o in una roulotte progettata per gnomi.
Nei depliant delle imprese si leggono frasi altisonanti sullo spirito di iniziativa dei «collaboratori», pardon dei lavoratori, ma poi sei considerato un perdente, perché non hai una casa, una famiglia decente, perché ti vesti male, perché, in fondo, in fondo, sei un po’ stupido se sei arrivato a galleggiare nel fondo del barile. Umiliazioni che non riescono a piegare le donne, che fanno andare avanti la baracca con la inventiva di astuti accorgimenti per «risparmiare tempo», riservandone un po’ per sé. Un’inventiva che usano con parsimonia, perché «mostrarsi troppo brave» non conviene, visto che «i capi `più vedono che sai fare, più pretendono da te e ti sfruttano’». Un antico e vecchio slogan del Novecento sosteneva che «per salario di merda, ci vuole un lavoro di merda». E’ quello che fanno le protagoniste e i protagonisti de Una paga da fame.
Donne in maggioranza, ma anche migranti. Croati, salvadoregni, guademaltechi, russi. Ma il mondo del libro non è quello descritto da John Dos Passos in Manhattan Transfer ottanta anni fa. No, quella di Barbara Ehrenreich è l’America di Bush e di Clinton. Tremende sono anche le statistiche che nelle conclusioni vengono fornite dall’autrice. Tra un primo e un secondo lavoro, il salario annuo della maggioranza della forza-lavoro è attorno ai 12-13 mila dollari, mentre per riprodursi in quanto tale si spendono dai 13-15 mila dollari. E i conti vengono fatti quadrare senza curarsi (tutti i compagni di lavoro della giornalista si riempiono di analgesici) e mangiando solo un pacchettino di patatine fritte per pranzo.
Ma perché queste donne e questi uomini non si ribellano? La risposta sta nel racconto di quando la protagonista lavora come commessa. L’impresa è la Wal-mart, grande catena della commercializzazione, il più grande datore di lavoro privato degli Usa. Odia il manager che la chiama «collaboratrice», imponendo però che timbri il cartellino ogni volta che va a fare pipì; oppure quando passa in rassegna come ha piegato gli abiti e se non è soddisfatto li getta malignamente a terra con un righello, quasi fosse un sergente che punisce il soldato negligente. Ma ciò che tiene chiusa la forza-lavoro nella gabbia d’acciaio della gerarchia sociale sono espressioni suadenti e dolci, come lavoro di squadra, inventiva, incentivo ai suggerimenti: sono le forche caudine da passare per avere venti, trenta centesimi in più all’ora. E che dire dell’odioso rito di iniziazione alla gerarchia rappresentato dalle analisi dell’urine per vedere se hai assunto alcol o qualche droga? Un raffinato strumento per farti presente che sei sempre sotto controllo.
L’autrice però non perde la speranza e quando in tv vede un sit-in dei lavoratori di una catena di alberghi in sciopero, alza il pugno in segno di vittoria. Una compagna di lavoro sorride e dice che dovrebbero farlo anche loro. Infine si abbracciano. Lieto fine? No. La giornalista è ritornata alla sua vita da oltre 150mila dollari all’anno. Le sue compagne di disgrazia no. Spesso gli Usa hanno anticipato ciò che poi sarebbe accaduto nel resto del mondo capitalista. Questo libro giunge quindi a proposito. Le proposte avanzate dal governo Berlusconi per riformare il mercato del lavoro puntano a creare le condizioni per renderlo simile a quello statunitense. Dopo aver letto Paga da fame, se mai qualcuno avesse avuto dei dubbi, la battaglia per fermare il Cavaliere del libero mercato è una battaglia di civiltà.