IL CAMMINO E LA BELLEZZA CI SALVERANNO


Non sono di sicuro il solo a ritenere che l’automobile e la televisione siano i due mezzi che più hanno contribuito a privare l’uomo del paesaggio nell’ultimo mezzo secolo della sua storia. Lo penso avendo vissuto sulla mia pelle questo mezzo secolo di trasformazioni. Ricordo la prima automobile di famiglia, una Renault 8, e gli stravolgimenti che provocò. Ricordo il primo televisore Telefunken in bianco e nero e l’immediata elevazione a focolare domestico. Etimologicamente, televisione viene dal greco “a distanza” e dal latino video, “vedere”. Vedere a distanza è la drammatica condizione di chi deve accontentarsi, di chi non può essere attivo e protagonista, perché non può vedere, toccare e sentire con i propri sensi, perché delega ad altri la rappresentazione della realtà, che diventa finzione. L’auto ha stravolto il rapporto spazio-temporale con il mondo. Ci ha dato velocità e ci ha tolto tutto il resto, e soprattutto la possibilità di rapportarsi al mondo con i tempi necessari (che per il cervello umano sono lunghi) e con la propria fisicità. Mettere il corpo nel paesaggio è il primo passo per tentare di ricomporre un rapporto con esso, per ripristinare un contatto autentico e profondo.

Abbiamo tutti bisogno di staccare la televisione e il computer per uscire da uno spazio chiuso, la casa (placenta di cemento) o l’automobile (placenta di lamiera), e per andare all’esterno… «l’uomo anela al paesaggio come il cervo alla fonte» (Luigi Lombardi Vallauri).

Rapportarsi al paesaggio è per l’uomo un’esigenza primaria. Oggi troppo spesso negata da una vita dopata dalla velocità, dalla superficialità, spesso dalla finzione.

Lasciare l’automobile, la televisione e il computer significa riappropriarsi dei tempi lenti, della realtà, del paesaggio. Più difficile è riappropriarsi del paesaggio. Come riacquisire quel senso di appartenenza al paesaggio che sembra ineluttabilmente tramontato? Parlo dell’indifferenza, grave e diffusa, verso i nuovi stravolgimenti del territorio perpetrati intorno alle nostre case per fini speculativi, per arricchire pochi e danneggiare tutti gli altri. Come riuscirci se stiamo perdendo il patrimonio di ricordi dei nostri luoghi, se non sappiamo più com’erano i nostri paesaggi, che oggi sono stati stravolti? Può risultare amara la constatazione che la nostra vita è tanto più ricca quanto più abbiamo ricordi. Ma per avere ricordi dobbiamo avere vita, dobbiamo rinnovare i nostri ricordi attraverso nuove esperienze. Personalmente, per riprovare le emozioni di un vecchio cammino devo rifare oggi lo stesso cammino. Ecco perché torno spesso sui miei passi.

Per sentire proprio il territorio – questa zolla di terra dove appoggio il piede è mia e quello che vedo è la prosecuzione di casa mia – occorre forse ripartire da un punto zero. Un nuovo rinascimento forte e “inutile”. Come nel vero Rinascimento, ci viene incontro l’arte, cioè l’attività umana, svolta singolarmente o collettivamente, che è capace di emozionare, di appassionare chi la pratica e di trasmettere ad altri le emozioni.

La raffigurazione del paesaggio, attraverso parole, immagini, disegni, rappresentazioni teatrali e altre forme creative, ci aiuta a sentire più forte e splendente il mondo nel quale ci inoltriamo. Il cammino diventa un’arte; un’arte che è capace di far partire una spirale virtuosa di innamoramento al paesaggio. Rappresentare un paesaggio significa osservarlo, capirlo, prendersi il tempo per sentirlo proprio. Sentire proprio un paesaggio significa conquistarlo, inscriverlo nel proprio catasto affettivo dei beni. E più possediamo di questi beni e più siamo nutriti e ricchi. La nostra vita, veloce e superficiale, ha bisogno di essere nutrita da beni che sfuggono alle regole del mercato di oggi.

Un campo, un prato, un bosco posso sentirlo mio, intimamente mio, anche, o forse soprattutto, se non ne ho il possesso giuridico. E’ mio se spesso ci cammino, se lo fotografo, se lo disegno, se ci sto bene. Lo conosco, lo amo, lo proteggo. Per presidiare il territorio da nuovi assalti speculativi bisogna creare affetto al territorio, alle zolle di terra della nostra vita. Bisogna concentrarsi sulle zolle immediatamente intorno alla propria casa, perché prendere un aereo e andare distante non produce gli stessi effetti positivi. Bisogna essere conquistatori dell’”inutile” vicino, che diventa molto utile perché serve alla nostra vita quotidiana. Il tempo che non fa crescere il PIL ma accresce il nostro amore alla terra, alla natura, all’intero Creato, fa bella e speciale la nostra vita. E fa della nostra scelta qualcosa di rivoluzionario a livello geopolitico, perché è qualità e sostenibilità, piacere e crescita senza circolazione di soldi.

Siamo chiamati a ricucire lo strappo uomo-paesaggio, ripartendo dalla Bellezza, sicuro che la Bellezza, con le energie e le emozioni positive che è in grado di generare, ci salverà.

Riccardo Carnovalini

Fonte: «Camminare Informa», la newsletter del cammino lento.