IL NUCLEARE NON SERVE ALL’ITALIA


É il tempo degli slogan: l’unica risposta concreta per fermare i cambiamenti climatici, è economico, permette di ridurre la bolletta italiana e la dipendenza dall’estero, è sicuro. La campagna mediatica a favore del nucleare, rilanciata con grande forza dal ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola nell’assemblea di Confindustria tenutasi nel mese di maggio del 2008, è costruita su bugie, conti fasulli, favole che servono a costruire una risposta emotiva da parte dell’opinione pubblica e un dibattito ideologico sui tabù e i divieti. Nella realtà si sta solo facendo il gioco di quei gruppi di interesse che si stanno candidando a gestire una montagna miliardaria di investimenti pubblici.

Il nucleare è la risposta ai cambiamenti climatici? Nulla di più lontano dalla realtà.

A livello mondiale una ipotesi di forte diffusione del nucleare nella produzione elettrica è semplicemente impossibile da realizzare con le attuali tecnologie di terza generazione. Per un problema di costi, per una evidente limitatezza della risorsa uranio, per la prospettiva che aprirebbe in termini di insicurezza globale uno scenario di diffusione del nucleare in tutto il mondo. E per questo non è presa in considerazione da nessun serio interlocutore scientifico o politico. Se si avesse come obiettivo il raddoppio delle centrali nucleari esistenti entro il 2030, rimpiazzando anche quelle che andranno a fine vita nei prossimi 20 anni, l’effetto sulle emissioni globali sarebbe di una riduzione solo del 5% , occorrerebbe aprire una nuova centrale nucleare ogni 2 settimane da qui al 2030, oltre a spendere un cifra tra 1000 e 2000 miliardi di euro, aumentando di molto i rischi legati a incidenti, alla proliferazione nucleare, e ingigantendo la questione delle scorie. Inoltre la produzione nucleare è solo apparentemente esente da emissioni di CO2, dal momento che gli impianti nucleari per motivi di sicurezza richiedono enormi quantità di acciaio speciale, zirconio e cemento, materiali che per la loro produzione richiedono carbone e petrolio. Ma anche le altre fasi della filiera nucleare, dall’estrazione del minerale d’uranio, alla produzione delle barre di combustibile, fino al loro stoccaggio e riprocessamento sono talmente rilevanti che complessivamente le emissioni indirette della produzione di un kWh da energia nucleare è stato calcolato essere comparabile con quella del kWh prodotto in una centrale a gas. Inoltre l’energia nucleare può fornire solo elettricità, che costituisce solo il 15% degli usi finali di energia, mentre il restante 85% è costituito da carburanti per i trasporti e calore per riscaldamento e processi industriali.

Nonostante la enorme quantità di calore che tali impianti disperdono nell’ambiente per la bassa efficienza del processo di conversione in elettricità, tale calore, per essere utilizzato richiederebbe la vicinanza di un grande bacino di utenza, cioè di una grande metropoli, cosa resa impossibile dalla pericolosità di questo tipo di centrali. Quindi, allo stato attuale, non essendoci al mondo altre ipotesi di utilizzo del calore di scarto realizzate, l’energia nucleare potrebbe solo in piccola parte ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili. Ridurre le emissioni di gas serra, realizzare una progressiva uscita dalle fonti fossili è una sfida che può passare solo per un significativo sviluppo delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica.

E per l’Italia scegliere l’opzione nucleare significherebbe mettere una pietra tombale su qualsiasi prospettiva di riduzione delle emissioni di CO2. Se la priorità, da ora al 2020, fosse realizzare centrali nucleari dovremmo dire addio agli obiettivi di diffusione delle fonti rinnovabili, innovazione tecnologica ed efficienza energetica – i due investimenti sono semplicemente alternativi e impossibili da portare avanti in parallelo – nonché di risparmio, perché si spinge uno scenario in cui non è contemplata la riduzione dei consumi. Il che equivarrebbe ad uscire dall’Europa e dire addio allo scenario comunitario al 2020 – che prevede il 30% di riduzione delle emissioni di CO2, il 20% di produzione energetica da rinnovabili e il 20% di miglioramento dell’efficienza energetica -, di fatto impossibile da raggiungere. Per una ragione di costi e perché nella migliore delle ipotesi – e quindi senza avere alcun problema nella localizzazione e costruzione delle centrali, scenario oggettivamente impossibile – la prima centrale entrerebbe in funzione tra almeno 10 anni. E l’obiettivo dichiarato da Enel e Edison è di coprire il 15-20% del fabbisogno elettrico al 2030 con 10-15 centrali. Molto più attraente puntare a realizzare gli obiettivi dell’Unione Europea e al 2020 avere già un contributo delle rinnovabili del 20% e insieme una significativa riduzione dei consumi, con un effetto in termini di riduzione delle emissioni di CO2 ben più consistente dello scenario nucleare. Senza scordare che lo sforamento degli obiettivi UE ha un costo – sono diventati vincolanti -, e l’opportunità che per un Paese come l’Italia si aprirebbe con uno scenario di generazione distribuita in termini di nuovi posti di lavoro nella ricerca e diffusione di tecnologie innovative e veramente rispettose dell’ambiente.

Il nucleare è economico e consentirà di ridurre la bolletta energetica del Paese? Bugie.

Tutti gli studi internazionali mostrano come l’energia nucleare sia la fonte energetica più costosa e meno competitiva, tant’é che in tutti gli scenari – persino in quello dell’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica – è prevista una riduzione del proprio peso nella produzione elettrica nei prossimi anni a livello mondiale.

Secondo l’Aiea a ottobre 2007 erano 439 i reattori operativi per un totale di 371.647 MW di potenza installata, che contribuivano però solo per il 15% della produzione elettrica mondiale, mentre ne risultavano in costruzione 32, per una potenza elettrica di 24.579 MW (7 in Russia, 6 in India, 5 in Cina, 2 a Taiwan, in Bulgaria, in Corea e in Ucraina, 1 in Argentina, Finlandia, Iran, Giappone, Pakistan e Stati Uniti dove nel Tennessee è ripartita nel 2007 la costruzione di un reattore del 1972).

Nonostante la ripresa dei programmi nucleari in questi paesi, il nucleare resta una fonte energetica in declino sullo scenario mondiale: infatti secondo le stime dell’Aiea sul contributo dell’atomo alla produzione elettrica mondiale, contenute nel rapporto «Energy, elettricity, and nuclear power estimates for the period up to 2030» pubblicato nel 2007, nei prossimi decenni si passerebbe dal 15% del 2006 a circa il 13% del 2030.

Questo declino è dovuto soprattutto ai suoi costi eccessivi. Quello dei costi per la produzione di un kWh dal nucleare resta il problema dei problemi su cui si continua a fare tanta propaganda, a maggior ragione in un paese come l’Italia dove la bolletta energetica è ancora molto alta. Nonostante da più parti si continui a spacciare il nucleare come una tra le fonti energetiche meno costose, sono numerose le ricerche, anche molto autorevoli, sui suoi costi “veri”, che hanno infatti scoraggiato i privati dall’investire in questa tecnologia negli ultimi decenni. Non è un caso infatti che negli Stati Uniti, dove i produttori di energia elettrica sono privati, non si costruisca una centrale nucleare dalla fine degli anni ’70.

Stessa cosa si può dire per gli Stati dell’Unione Europea, dove il processo di liberalizzazione del mercato dell’energia è in atto, con l’unica eccezione della Finlandia che ha deciso di costruire il nuovo reattore Olkiluoto-3 – con una quantità davvero incredibile di problemi nella costruzione, con tempi più lungi e costi più alti del previsto -, ma dove si prevede che la costosa chiusura del ciclo del combustibile sia a carico della collettività.

In effetti il basso costo del kWh da nucleare è dovuto esclusivamente all’intervento dello Stato nella chiusura del ciclo del combustibile nucleare, considerando quindi stranamente “esterni” i costi per lo smaltimento definitivo delle scorie e per lo smantellamento delle centrali. A tal proposito sono illuminanti le conclusioni della ricerca «The economic future of nuclear power» condotta dall’Università di Chicago nell’agosto 2004 per conto del Dipartimento dell’energia statunitense sui costi del nucleare confrontati con quelli relativi alla produzione termoelettrica da gas naturale e carbone. Secondo il rapporto dell’Università Usa, considerando tutti i costi, dall’investimento iniziale e dalla progettazione fino ad arrivare alla spesa per lo smaltimento delle scorie (che incide fino al 12% del prezzo totale di produzione elettrica), il primo impianto nucleare che entrerà in funzione produrrà elettricità a 47-71 dollari per MWh, escludendo qualsiasi sovvenzione statale all’industria dell’atomo, contro i 35-45 dei cicli combinati a gas naturale.

Conclusioni paragonabili a quelle raggiunte dal Massachusetts Institute of Technology nel rapporto «The future of nuclear power» pubblicato nel 2003. Anche la stima più recente del Dipartimento USA (2007) mostra che l’elettricità da nucleare da nuovi impianti presenta i costi industriali più elevati:

Stima costi elettricità da nuovi impianti in funzione al 2015 e al 2030 secondo il Dipartimento dell’energia degli USA: Carbone: 56,1 (2015) – 53,7 (2030); Gas: 55,2 (2015) – 57,2 (2030); Eolico: 68,0 (2015) – 67,9 (2030); Nucleare: 63,3 (2015) – 58,8 (2030).

Fonte: EIA/DOE 2007 Annual Forecast – valori espressi in i dollari del 2005 per MWh

Nota: per gli impianti nucleari negli USA è previsto inoltre un sussidio di 18 dollari al MWh. Tra costo industriale e sussidio il costo raggiunge circa gli 80 dollari al MWh.


Nonostante i forti incentivi previsti dal 2005 negli USA e citati nella nota della tabella – oltre all’incentivo sul kWh ci sono anche fondi a tasso agevolato e assicurazioni per eventuali ritardi nella costruzione degli impianti per un totale di 18,5 miliardi di dollari – secondo il rapporto di Moody’s presentato lo scorso ottobre, solo una o due centrali verranno effettivamente costruite rispetto alla trentina di istruttorie avviate (Moody’s, New Nuclear Generation in the US, October 2007).

E a proposito di finanziamenti e sovvenzioni vale la pena ricordare come, stando alle stime dell’Agenzia internazionale per l’energia, dal 1992 al 2005 nei paesi Ocse il nucleare da fissione ha usufruito del 46% degli investimenti in ricerca e sviluppo, quello da fusione del 12%, mentre alle rinnovabili è stato destinato solo l’11% del totale, con evidenti disparità tra le fonti a discapito di quelle veramente pulite. Oppure il finanziamento pubblico italiano di ben 16,5 milioni di euro in tre anni destinato alla ricerca sui reattori di quarta generazione, sul totale dei 60 previsti dall’accordo del 2007 sulla ricerca energetica stipulato fra Enea e Ministero dello sviluppo economico. Infine si può citare il caso di Paesi in cui il rilancio dell’energia nucleare sarà possibile solo a fronte di forzature delle regole del libero mercato, come negli Stati Uniti – dove sono previsti ben 8 miliardi di dollari di aiuti alle imprese per aumentare solo del 3% le forniture elettriche nazionali – o in Finlandia – dove è già stabilito che l’energia prodotta dalla nuova centrale verrà comprata dallo Stato che poi si farà carico delle spese relative alla sicurezza e allo smaltimento -.

Per quanto riguarda l’Italia, per rendere il nucleare un pezzo consistente della produzione energetica nazionale occorrerebbe costruire da zero tutta la filiera con la spesa di immense risorse economiche pubbliche: servirebbero almeno 10 centrali, per un totale di 10-15mila MW di potenza installata, e tra i 30 e i 50 miliardi di euro di investimenti in larga parte pubblici, senza dimenticare gli impianti di produzione del combustibile e il deposito per lo smaltimento delle scorie. Queste centrali nella migliore delle ipotesi entrerebbero in funzione dopo il 2020 e con guadagni per le aziende a partire dal 2030, a fronte di mostruosi investimenti pubblici che verrebbero tolti allo sviluppo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, senza alcuna garanzia di riduzione delle bollette dei cittadini. D’altronde siamo in un mercato liberalizzato, Enel e Edison – le due società elettriche che in questi giorni si sono rese assolutamente disponibili all’ipotesi di un nuovo programma nucleare da parte del governo Berlusconi – rispondono ai propri azionisti e hanno tutto l’interesse ad aumentare il dividendo e il valore in borsa, piuttosto che ridurre le bollette energetiche. Senza considerare che lo scenario del nucleare è spinto dai grandi gruppi elettrici anche per fermare un modello di generazione distribuita più efficiente e incentrata sulle rinnovabili, che vede la nascita di centinaia di nuove piccole e medie aziende. In Germania e Spagna questa rivoluzione dal basso ha prodotto centinaia di migliaia di posti di lavoro e sta dimostrando che uscire dal nucleare in quei Paesi è possibile. Ma perché vogliamo candidarci a fare il contrario?

Il nucleare di oggi è sicuro grazie alle tecnologie di quarta generazione? Favole.

Non esiste alcuna possibilità di iniziare oggi un programma di realizzazione di centrali nucleari di “nuova generazione” che possa contare su tecnologie diverse da quelle attualmente in costruzione, che restano insicure e con tutti i problemi irrisolti di gestione e smaltimento delle scorie e di approvvigionamento del sempre più scarso uranio fissile, come nel caso della centrale finlandese o dell’Epr che vorrebbe costruire la Francia, con la partecipazione dell’Enel. Nella migliore delle ipotesi discusse a livello internazionale, con esiti positivi di tutti i possibili sviluppi tecnologici attualmente in fase di ricerca, si parla del 2030 per vedere in attività la prima centrale di quarta generazione. Dunque il Governo italiano ci sta candidando a promuovere un programma arretrato e insicuro di centrali di terza generazione, sulla cui tenuta economica dovrà garantire comunque lo Stato italiano perché come dimostrano tutte le ricerche internazionali nessuna centrale nucleare può risultare competitiva sul mercato considerando interni anche i costi di smaltimento delle scorie e di decommissioning degli impianti. E, come sostenuto anche dallo stesso Presidente dell’Enea Luigi Paganetto, sarebbe folle spendere immense somme di denaro pubblico per investire sulla filiera del nucleare di terza generazione, che non ha risolto nessuno dei suoi problemi, noti alla comunità internazionale a partire dagli anni ’70.

Sulla sicurezza degli impianti ancora oggi, a oltre 22 anni dal terribile incidente di Chernobyl, non esistono le garanzie per l’eliminazione del rischio di incidente nucleare e conseguente contaminazione radioattiva. A tal proposito non sono totalmente rassicuranti neanche i primi risultati degli studi in corso con l’iniziativa di ricerca internazionale «Generation IV» promossa dagli Stati Uniti insieme ad altre nazioni, a cui si è aggiunta anche l’Italia, sui reattori raffreddati ad acqua o a gas e su quelli a spettro veloce, che si è posta l’obiettivo di pervenire entro il 2030 a un prototipo di reattore in grado di tentare la sfida della sicurezza e, quindi, dell’accettabilità sociale. Senza dimenticare poi che l’assicurazione di una centrale nucleare in grado di coprire i danni un potenziale incidente ha dei costi impossibili anche per i colossi mondiali privati dell’atomo.

Rimangono poi tutti i problemi legati all’eliminazione del problema della contaminazione “ordinaria” delle centrali nucleari in seguito al rilascio di piccole dosi di radioattività durante il normale funzionamento dell’impianto a cui sono esposti i lavoratori e la popolazione che vive nei pressi. Non esistono poi ad oggi soluzioni concrete al problema dello smaltimento dei rifiuti radioattivi derivanti dall’attività delle centrali o dal loro decommissioning. Le circa 250mila tonnellate di rifiuti altamente radioattivi prodotte fino ad oggi nel mondo sono tutte in attesa di essere conferite in siti di smaltimento definitivo. Lo stesso vale ovviamente anche per il nostro Paese che conta secondo l’inventario curato da Apat circa 25mila m3 di rifiuti, 250 tonnellate di combustibile irraggiato – pari al 99% della radioattività presente nel nostro Paese -, a cui vanno sommati i circa 1.500 m3 di rifiuti prodotti annualmente da ricerca, medicina e industria e i circa 80-90mila m3 di rifiuti che deriverebbero dallo smantellamento delle 4 centrali e degli impianti del ciclo del combustibile. Una montagna di rifiuti che necessitano di un sicuro sito di smaltimento, che il governo Berlusconi e la Sogin alla fine del 2003 avevano pensato bene di collocare a Scanzano Ionico, in Basilicata, sbagliando nel merito (il sito non era stato studiato con rilievi sul campo, ma solo attraverso indagini bibliografiche) e nel metodo (non coinvolgendo enti locali e cittadini), e creando un pericolosissimo precedente per la necessaria realizzazione del sito di smaltimento delle scorie italiane.

Oltre al problema legato alla sistemazione definitiva delle scorie, esiste anche la necessità di rendere inutilizzabile il materiale fissile di scarto per la possibile costruzione di bombe, a maggior ragione in uno scenario mondiale in cui il terrorismo globale è una minaccia attualissima. Gli impianti nucleari attivi – e lo stesso discorso vale per quelli in costruzione – se da una parte possono diventare obiettivi sensibili per i terroristi, dall’altra producono scorie dal cui trattamento viene estratto il plutonio, materia prima per la costruzione di armi a testata nucleare. Nell’attuale quadro mondiale si corre il forte rischio che ci possano essere Paesi che vogliano sfuggire al controllo della comunità internazionale – come nel caso dell’Iran -, che potrebbero utilizzare il nucleare civile come grimaldello per dotarsi di armamenti nucleari.

Occorre poi fare i conti con le riserve di U235: secondo le stime del World Energy Council, l’Uranio estraibile a costi calcolabili è dell’ordine di 3,5 milioni di tonnellate a fronte di un consumo annuale di circa 70 mila tonnellate. Così l’uranio fissile altamente radioattivo che, al ritmo di consumo attuale, è disponibile solo per 40-50 anni (e se la richiesta crescesse, si potrebbe riproporre una situazione del tutto simile a quella delle «guerre per il petrolio») e con i tempi di realizzazione delle centrali. Per realizzare una nuova centrale nucleare occorrono almeno 10 anni, senza considerare le inevitabili proteste delle popolazioni eventualmente interessate dall’insediamento. Se non si riesce a realizzare la tecnologia dei cosiddetti reattori autofertilizzanti (finora tutti i prototipi – come nel caso del SuperPhoenix – sono stati un fallimento), un Paese come il nostro, che deve ripartire da zero visto che ha fortunatamente abbandonato la produzione elettrica da nucleare, metterebbe in campo ingentissime risorse, in gran parte pubbliche, per una tecnologia che usa una fonte naturale – l’uranio – in via di esaurimento e che potrebbe usare per pochissime decine di anni, creando tra l’altro immensi problemi e per millenni per le generazioni future, con le scorie altamente radioattive.

L’Italia può vantare di essere stato il primo tra i Paesi più industrializzati ad abbandonare l’energia nucleare, seguita in questi anni dalle scelte energetiche di Germania – con la definizione dell’exit strategy dalla produzione di energia elettrica dall’atomo entro il 2020 – e Spagna che attraverso rinnovabili e efficienza energetica hanno messo in atto una strategia di uscita dall’atomo. I cambiamenti climatici in atto sul Pianeta Terra non ci devono far ricredere: il nucleare non può essere considerato la risposta al global warming, perché fino ad oggi non ha mai risolto i problemi noti a tutti da quando negli anni ’70 si cominciarono a concepire i reattori di terza generazione – più o meno gli stessi che si stanno costruendo oggi -. Discuterne, come si fa troppo spesso da noi, fa semplicemente perdere altro tempo ad un Paese come il nostro che è in grave ritardo rispetto agli obblighi presi a Kyoto nel 1997 e rispetto al nuovo scenario 30-20-20 sancito nel Vecchio continente al 2020. La strada maestra è molto più semplice ed è quella fondata soprattutto sul risparmio, sull’efficienza energetica e sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, banalmente perché è una soluzione più immediata, sostenibile e addirittura più economica.

Il nostro Paese deve smetterla di inseguire la chimera dell’atomo, azzerando gli investimenti pubblici sul settore nucleare, destinando le sempre esigue risorse pubbliche alla ricerca e allo sviluppo delle nuove tecnologie, allo sviluppo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica. Se si vuole che l’Italia continui a partecipare al programma internazionale di ricerca sul nucleare di quarta generazione, lo faccia con i soldi delle aziende private senza utilizzare quelli della

collettività.

Uno scenario senza nucleare è ben più desiderabile per un Paese come l’Italia. Scegliamo di intraprendere la strada scelta dall’Unione Europea, rendiamo possibile lo sviluppo di tutte le fonti rinnovabili per arrivare a soddisfare almeno il 20% del fabbisogno energetico italiano, promuoviamo un modello di generazione energetica distribuito che migliori l’efficienza del sistema e riduciamo veramente le emissioni di CO2 al 2020. Uno scenario a portata di mano che permette di costruire un tessuto di imprese innovative, di realizzare migliaia di nuovi posti di lavoro nella ricerca e sviluppo, di avere città più moderne e pulite.

Per Greenpeace, Legambiente e WWF la strada del nucleare che il Governo vuole intraprendere è un ritorno al passato. Siamo pronti a discutere di qualsiasi scenario in grado di invertire lo scenario del global warming, ma sulla base di dati scientifici e non di approcci ideologici. Nel caso di una forzatura che voglia fermare il percorso che l’Italia si è impegnata a intraprendere a livello europeo e che punti a forzature sul nucleare – magari utilizzando l’articolo del Dpcm entrato in vigore il 1 maggio, che permette di applicare il segreto di Stato anche agli impianti di produzione energetica – la nostra risposta sarà altrettanto forte ed efficace di quanto siamo riusciti a mettere in campo negli anni ’80 e più recentemente nel 2003 dopo il blitz deciso dall’esecutivo per realizzare senza alcun confronto con il territorio il sito unico di smaltimento delle scorie radioattive a Scanzano Jonico.