GIORNALISTI PROFETI DI PAURA (di Fulvio Gardumi)


«Un buon articolo di giornale dovrebbe cominciare in modo da provocare un lettore, che sta facendo colazione con sua moglie, a sputare il caffè, stringersi il petto ed esclamare: “Mio Dio, Marta! Hai letto questa cosa?”». Questo il consiglio dato ai giovani cronisti dalla giornalista americana Edna Buchanan, Premio Pulitzer (l’Oscar del giornalismo in America) e riportato anche sui nostri testi di tecnica giornalistica.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, se gran parte dei nostri giornali cerca di mettere in pratica questo suggerimento e di trasformare ogni notizia in un thriller. E non c’è da meravigliarsi se la lettura di un giornale o l’ascolto di un telegiornale si trasforma ormai in un bombardamento di notizie che creano ansia. La grande paura è il tema dominante dei nostri mass media, opportunamente sfruttata dalle forze politiche che sulla paura fanno leva per creare le loro fortune.

L’obiettivo dei mass media è quello di aumentare le vendite o l’audience. É assodato che attirano di più le notizie che coinvolgono emotivamente il lettore. E per raggiungere questo scopo si usano varie tecniche. Fate caso, ad esempio, nei titoli o nei sommari, all’abuso di termini come «sfida», «polemica», «scontro», «giallo» (a volte con effetti di comicità involontaria, come il titolo di un grande giornale del Nord: «Cinese trovato morto in casa. É giallo»). Se lo scontro non esiste si crea. Si telefona a decine di persone finchè se ne trova una che sostiene una posizione contraria. Si trova sempre. In un’intervista non è importante il senso del pensiero dell’intervistato ma l’unico particolare dal quale sia possibile far scaturire una polemica. Ciò che conta è l’impatto emotivo. Anche in campi apparentemente neutri come la meteorologia, se piove tre giorni i titoli parlano di «Italia sott’acqua», se fa caldo di «Italia in fiamme» e se fa freddo di «Italia nella morsa polare».


Questa rincorsa al sensazionalismo
è una delle caratteristiche che la carta stampata ha mutuato dalla tv, la quale per attirare l’attenzione deve spettacolarizzare tutto, anche il dolore. Anzi, soprattutto il dolore. Ma negli ultimi anni la tendenza è cresciuta a dismisura a causa della concorrenza sempre più spasmodica dei vari mezzi, spinta dalle nuove tecnologie. Oggi le notizie ci raggiungono 24 ore su 24, sempre più in tempo reale. Non solo radio, tv e stampa tradizionali, ma canali dedicati esclusivamente alle news, internet, palmari, telefonini cellulari…

Cito Tony Blair, che in un suo intervento al Reuters Building riportato da Repubblica un anno fa, parlava della stampa come di una «belva selvaggia, che fa a brandelli le persone e la loro reputazione». Scriveva Blair: «I giornali non danno più informazioni: queste circolano già. Devono pertanto dare dettagli sensazionali o commenti o interpretazioni… Si deve catturare l’audicence, trattenerla e solleticarne le emozioni. Ciò che è interessante è meno efficace di ciò che provoca collera o shock». Tra le conseguenze c’è che le opinioni diventano più importanti dei fatti, di cui sempre più volentieri si fa a meno (Marco Travaglio ha dedicato a questo tema il libro «La scomparsa dei fatti»). Né vale dire, come qualcuno ha fatto, che Blair si è pure servito di queste aberrazioni dei media finché gli hanno fatto comodo: ciò che conta è la drammatica evidenza della sua analisi.

Di fronte a questa situazione, spesso i cittadini si chiedono sconsolati che cosa è possibile fare. Non c’è dubbio che il rapporto tra informazione e democrazia è delicato e vitale e che quindi una cattiva informazione fa un cattivo servizio alla democrazia. Ma è in parte anche vero che spesso l’informazione è lo specchio della società. Come ci diceva anche Mario Tronti nel corso dell’ultimo convegno di Rimini della Rete Radie’ Resch, «in Italia c’è un concetto positivo di società civile in contrapposizione alla politica. In realtà è la società civile che produce una politica a sua immagine e somiglianza». 

Io credo che il modo migliore di affrontare i problemi dell’informazione sia conoscerne i meccanismi. Partire dalla consapevolezza che l’informazione è basata su un processo di selezione: tra i milioni di fatti che avvengono ogni giorno nel mondo, noi ne veniamo a conoscere poco più di un centinaio leggendo i quotidiani e ancor meno ascoltando i notiziari radio tv. Del resto sarebbe impossibile leggere un giornale di centinaia di pagine. La selezione viene fatta dai giornalisti, attraverso una serie di griglie e passaggi ormai codificati. «Ciò è alla base di manipolazioni più o meno intenzionali, ma anche la normale selezione delle notizie è basata su meccanismi tendenziosi e parziali. E d’altra parte non esiste informazione senza mediazione, dai fatti alle notizie. L’importante per il fruitore è quindi avere piena percezione della complessita’ di questo processo» (Claudio Fracassi, «Le notizie hanno le gambe corte», Rizzoli 1996: un libro che, se ancora in commercio, consiglio vivamente a tutti quelli che non l’avessero ancora letto).

Le notizie non sono i fatti, ma sono il racconto dei fatti. E chi racconta ci mette sempre del suo. Ci sono alcuni criteri  classici che ci dicono perché un fatto sia scelto tra i tanti per diventare notizia. Nelle scuole di giornalismo si è sempre insegnato che «un cane che morde un uomo non fa notizia, mentre un uomo che morde un cane fa notizia». Ciò significa che solo le cose che escono dalla normalità fanno notizia. Tra i criteri principali vi è la vicinanza. Più un fatto è vicino più fa notizia (la vicinanza non è solo quella fisica – ciò che accade nella mia città – ma anche politica – ciò che accade nel mio partito – ideologica o culturale). Poi conta l’importanza e il numero delle persone coinvolte. Le persone importanti fanno notizia anche quando dicono banalità, mentre uno sconosciuto può dire anche la cosa più sensata di questo mondo e nessuno lo bada. Il numero delle persone coinvolte porta anche a distorsioni: ad esempio le stragi in Africa arrivano sui nostri giornali quando il numero di morti supera le decine di migliaia. Altri criteri sono  l’impatto sulla nazione e sull’interesse nazionale (dieci morti in un incidente aereo in Thailandia non fanno notizia da noi, ma se tra i passeggeri c’è un italiano questo fa notizia; le stragi in Iraq fanno notizia perché ci sono i nostri militari); un’idea condivisa di progresso (nuovi farmaci, scoperte scientifiche, imprese spaziali…); la rilevanza di un evento rispetto a sviluppi futuri (se del fatto se ne potrà parlare per giorni o settimane); la conflittualità (se non c’é si crea: si usa il pepe per rendere più appetibile la notizia); il coinvolgimento emotivo del lettore (i giornalisti citano le tre S: sangue, soldi, sesso). Naturalmente ci sono anche le informazioni di utilità pratica e di servizio.

Saltando a piè pari tanti altri aspetti del mondo dell’informazione, non si può non dire una parola sulle fonti: ogni notizia ha una fonte, alla quale il giornalista attinge. Per la cronaca nera sono le forze dell’ordine e gli addetti ai soccorsi, per la cronaca giudiziaria sono magistrati, avvocati e inquirenti, per la politica le istituzioni, i partiti, i singoli politici, per l’economia le imprese, le banche, le associazioni di categoria, i sindacati, gli economisti, e così via. Spesso la notizia viene da un ufficio stampa o da una conferenza stampa, ma più spesso da rapporti confidenziali, amicizie nei corridoi del palazzo, soffiate più o meno disinteressate. Un dato è certo: le fonti non sono mai neutre e il più delle volte sono interessate. Un bravo giornalista le verifica e le confronta fra loro. Ma non sempre lo fa, o per mancanza di tempo o per pigrizia.

Ma insomma, è possibile difendersi dai condizionamenti dell’informazione? Sì, se si considera l’articolo di giornale o il servizio televisivo non come «il racconto di cosa è successo» ma come «il prodotto di un punto di vista, del rapporto con una fonte esplicita o tacita. Si tratta di accostarsi all’informazione non come a un prodotto finito, da accattare a scatola chiusa, ma come un contributo, utile e nello stesso tempo parziale, per la comprensione delle cose» (Fracassi).

Conoscere come funziona l’informazione e come noi possiamo usarla è fondamentale nel villaggio globale. Spero di non aver detto cose troppo ovvie. Se così fosse, chiedo venia fin d’ora.

Fulvio Gardumi



Fulvio gardumiFulvio Gardumi
è nato a Trento 58 anni fa, ha conseguito la maturità classica e la laurea in lettere all’Università di Padova. Ha frequentato la Scuola di giornalismo «Nicolò Rezzara» di Vicenza. Come giornalista professionista ha lavorato per 17 anni, dal 1973 al 1991, al settimanale cattolico «Vita Trentina» e per altri 17, dal 1991 al 2008, all’agenzia Ansa, che ha lasciato il 1 aprile di quest’anno per pensionamento. Dal 2000 al 2003 è stato presidente dell’Ordine regionale dei Giornalisti del Trentino Alto Adige e dal 2004 è consigliere nazionale della Federazione nazionale della Stampa (Fnsi) e vice segretario regionale del Sindacato Giornalisti. Dal 1981 fa parte della Rete Radie’ Resch di solidarietà internazionale, di cui è referente per il Trentino.