IMMIGRATI. LA VERITÁ SUI CAMPI LIBICI

«In una democrazia non basta la libertà:

servono uomini liberi
»

(Fabrizio Gatti, dal libro «Bilal»)


Come è noto, motovedette italiane di pattugliamento nel Canale di Sicilia hanno fermato un battello carico di un centinaio di profughi in fuga dalle Coste Africane, e li hanno rinviati in Libia, da dove sembra fossero partiti. Azione definita, con termine elegante e molto appropriato «respingimento». Essa è stata adottata dal nostro Paese – e ripetuta poco dopo – con un certo orgoglio, al grido di «era ora», che sembrerebbe molto condiviso dagli italiani, per lo meno secondo i nostri parlamentari e molti mass media.

Cittadini intervistati per la strada hanno manifestato soddisfazione perché «finalmente si adottano misure concrete e non chiacchiere» per respingere i clandestini, gli irregolari, e quindi i futuri criminali. Molti rappresentanti politici, sia del governo che dell’opposizione, hanno plaudito. Per i l Ministro degli Interni si tratta di «una svolta storica nel contrasto dell’ingresso illegale» ovviamente «rivolta soprattutto a punire i trafficanti di merce umana, e rispettosa delle vite dei profughi… che vengono per noi prima di ogni altra cosa».

E se tra gli sventurati dei barconi ci fossero stati dei possibili rifugiati politici, dei perseguitati aventi comunque diritto all’asilo – come ci viene ricordato anche dall’ONU – ebbene «anche in Libia c’è un CIR (Centro Italiano per i Rifugiati), si possono rivolgere là». La stampa ci avverte però che il Ministro dimentica i dettagli. L’unico CIR in Libia è stato aperto pochi giorni fa, con un solo addetto, nessun finanziamento se non lo stipendio dell’impiegato. Naturalmente non è riconosciuto dalla Libia, cioè dal Paese – che non riconosce nessuna Carta dei Diritti Umani – con cui abbiamo stipulato i costosi accordi per fermare l’emigrazione. Al ministro Maroni fa eco -pur con diverse sfumature, l’entourage governativo, da Ronchi a Bricolo, a Fini stesso. Si associa anche una parte della opposizione: l’ex ministro Fassino conferma la legittimità dell’azione, in linea con i trattati internazionali. Molti «benpensanti della sinistra» ricordano l’ovvietà, cioè che i problemi dei migrantes vanno risolti a casa loro creando – naturalmente al loro Paese – posti di lavoro, libertà e democrazia. Grazie, la soluzione era talmente semplice che non ci eravamo arrivati.

C’è qualcosa di strano in questa come in altre vicende politiche italiane di questi giorni. É un poco come se il nostro Paese fosse colpito da un virus encefalitico molto peggiore di quello messicano. Si chiama il silenzio della ragione ed il trionfo della farneticazione. Le verità che infastidiscono vengono sostituite da falsificazioni di comodo, che poi possono essere sempre smentite. Si afferma l’idea che davanti ai problemi del macrocosmo – la povertà, la fame, l’avvento di una s ocietà multietnica – complessi e difficili da affrontare, non occorra battersi per cercare faticosamente le soluzioni, ma sia preferibile – e più gradito alle masse elettorali – rimuovere il problema, trasferirlo via da noi, seppellirlo da qualche parte in modo che non dia più fastidio alla vista dei benpensanti. Problema spostato, problema dimenticato, per usare una finezza letteraria di un nostro Parlamentare, che si adatta bene a tutti i poveri ed a chi non ha voce per gridare, non ha mezzi per difendersi.

Poi però c’è il resto del Mondo. Del Mondo Civile, che ci ricorda qualche verità dimenticata e che rompe questa voluta oscurità. Anzitutto le Nazioni Unite. L’Alto Commissario ci rammenta che la Carta dei Diritti del’Uomo l’abbiamo sottoscritta anche noi, a Ginevra nel 1951. Secondo la quale «chi fugge per timore di persecuzioni dovute alla sua razza, religione, cittadinanza, opinioni politiche, chi fugge dalle guerre e da persecuzioni belliche… ha diritto all’asilo politico»! . Principio ribadito quasi alla lettera dall’articolo 10 della nostra Costituzione. Ebbene, secondo il direttore del Consiglio Italiano dei Rifugiati, Christofer Hein, analizzando le statistiche del Centro di Lampedusa, il 72% dei profughi chiede asilo, e la metà di essi lo ottiene perché ne ha diritto. Come osserva Gianantonio Stella sul «Corriere» probabilmente varie decine nei due-trecento «respinti» avevano titolo all’asilo. E tutti avevano diritto di non essere «infoibati». «Sono stati ricondotti in Libia, abbiamo imboccato la via giusta». Fa specie che tra i politici più entusiasti di questa nuova ma vecchissima strategia emergano anche noti rappresentanti di sedicenti movimenti «cristiani». Per questo fanno bene all’anima gli appelli che si sono levati dalla Chiesa Cattolica a tutela della dignità umana.

Andrea Segre ci ha infatti ricordato – in un suo reportage per la Unione Europea, l’inferno dei campi li bici di detenzione dei profughi africani. Dove ad esempio i migranti etiopi od eritrei di religione copta vengano torturati dai carcerieri libici, fino alle esecuzioni sommarie. Dove – dati confermati dalla Charitas, Medecins sans Frontieres, Amnesty International etc.- la maggior parte delle donne e molti dei minori vengono sistematicamente e ripetutamente violentati. Dove – secondo il rapporto 2006 del Direttore del Sisde, dr. Mori, al comitato parlamentare di controllo- «i clandestini vengono raccolti nei furgoni come cani, bastonandoli e legandoli, e trasportati in campi profughi dove i sorveglianti lavorano con maschere per gli odori nauseabondi», dovuti alla mancanza di qualsiasi struttura igienica o di polizia obituaria. Testimoni anzi hanno descritto nel campo di Seba, scenari di vita preistorica . Secondo l’Alto Commissariato ONU «i container viaggiano nel deserto con il loro carico umano per due tre giorni, senza viveri né acqua, con i prigionieri che bevono la propria urina…».

Secondo Fortress Europe (Osservatorio sulle Vittime delle Migrazioni), mediamente ogni anno 3000-4000 persone muoiono perché abbandonate nel deserto lungo la frontiera libica con il Niger, Ciad, Sudan o Egitto, e più o meno altrettante vengono vendute ai mercanti di schiavi». Cadono le braccia. Fermiamoci qui.

Nessuno pretende che lo spirito più profondo del cristianesimo, il suo più grande e delicato contenuto esistenziale possano essere compresi, introiettati e vissuti da tutti sul pianeta, anche dal predone del deserto nato, ed educato nella legge della violenza e della sopraffazione. Sappiamo che può essere molto difficile riconoscersi realmente nel sommo comandamento, e praticarlo, ancor più in questa «affluent» e fatua società. Un logo che reciti «ama il prossimo tuo come te stesso» può apparire troppo impegnativo ed impraticabile tra i cellulari ed il jet set, apparentemente così lontani dalle miserie del Terzo e Quarto Mondo. Ma sembra opportuno, visti i tempi, che qualcuno ricordi almeno ai consorzi umani di ispirazione cristiana, e soprattutto a quei responsabili politici che in questi giorni hanno inneggiato al «respingimento» dei profughi, e che al primo accenno alle cellule staminali o alle unioni civili sbandierano il loro inossidabile cristianesimo, qualche concetto che sembra caduto nell’oblio. Come dicevano Giovanni e Pietro nelle loro Lettere, «Deus Charitas est».

Senza alcuna retorica, sarebbe forse utile certi nostri parlamentari provassero a rivalutare le loro decisioni nelle vicende di questi giorni ricorrendo al giudizio di un personaggio spesso da loro stessi evocato e celebrato: Madre Teresa. Che così definiva l’unico vero significato della nostra esistenza :«Combattere perché si riconosca Cristo in ogni uomo, arrivare a Dio amando le sue creature». Ci riflettano un momento in silenzio. Dopo, solo dopo, riprendano pure le interviste sulla «svolta storica», sui «fatti invece delle chiacchiere».

Prof. Massimo Gerosa

Ordinario di Neurochirurgia

Università di Verona

Fonte: quotidiano «L’Arena di Verona», Giovedì 14 Maggio 2009, pagina 19. La lettera è stata pubblicata anche dal quotidiano «Avvenire»