[Ettore Masina 13.03.05] Quel pomeriggio di fine agosto, a Recife, si scatenò un temporale. Che dico? Un nubifragio, un diluvio, un tifone, o quasi. La periferia della metropoli diventò invisibile al di là dei finestrini del tassì che ci portava all'aeroporto; sembrava di essere in un acquario, con la differenza che gli acquari sono silenziosi  e illuminati mentre qui il maltempo ruggiva, anticipando una nerissima notte...

LA «LETTERA» DI ETTORE MASINA

Quel pomeriggio di fine agosto, a Recife, si scatenò un temporale. Che dico? Un nubifragio, un diluvio, un tifone, o quasi. La periferia della metropoli diventò invisibile al di là dei finestrini del tassì che ci portava all’aeroporto; sembrava di essere in un acquario, con la differenza che gli acquari sono silenziosi  e illuminati mentre qui il maltempo ruggiva, anticipando una nerissima notte. “Graças a Deus” mormorò piamente il tassista quando arrivammo al terminal.
 
La violenza del maltempo impediva i decolli, e le sale d’attesa, come succede in quei casi, assunsero rapidamente l’aspetto di un bivacco fumoso. Nonostante la pioggia incrudelisse, continuavano ad arrivare passeggeri, e anche il chiasso andava crescendo. Una folta comitiva di italiani era la maggior fonte di baccano. Guardandoli con antipatia, ci accorgemmo che avevano una caratteristica particolare: non l’aspetto, che era di persone qualunque di varia età, fra i 30 e i 60, piccola borghesia, non il loro dialetto o accento, che erano quelli di lombardi, di veneti e di toscani, ma il fatto che erano accompagnati da un gruppo di ragazzine, quasi tutte in due pezzi: body e minigonne. Qualcuna aveva gli occhi e le labbra truccate, ma la maggior parte non nascondevano quello che erano: bambine di una decina d’anni o poco più. Vestite com’erano, sembravano caricature delle “famose mulatte” del Brasile; ma più ricordavano, a me e a mia moglia Clotilde, le nostre nipotine quando si impossessano degli abiti delle madri e si pavoneggiano davanti a uno specchio.
 
Queste bambine stavano in un gruppetto a parte, e si vedeva che erano annoiate dell’attesa. Di quando in quando un italiano usciva dalla sua cerchia e andava a parlare con qualcuna di loro. Rideva con lei, le carezzava una guancia, le dava qualche festosa pacca sul sedere. La verità era evidente. Ci venne da vomitare quando ci accorgemmo che qualcuno di quegli allegri turisti si appartava con la “sua” bambina e le parlava con affettuosa serietà, facendole la predica, come usano, prima di partire per un lungo viaggio i papà o i nonni. Un famoso giornalista brasiliano, Gilberto Dimenstein, che aveva dedicato due approfondite inchieste al problema della prostituzione minorile, mi aveva detto pochi giorni prima. «Le bambine mi hanno raccontato che il “cliente” italiano, al momento culminante vuole essere chiamato papà».
 
Finalmente, con la stessa subitaneità con la quale si era avventato sulla città, il temporale-diluvio se ne andò, e noi, richiamati dalle incomprensibili voci vellutate delle hostess, marciammo verso i debiti varchi. Perdemmo di vista i nostri connazionali, per grazia di Dio non assistemmo ai loro congedi. Ben presto le luci furono spente nell’aereo, ridotti a ombre i passeggeri. Rivedemmo i pedofili la mattina seguente. Si salutarono garbatamente fra loro, evitando qualsiasi espressione di complicità. Scendendo alla Malpensa, erano diventati onesti artigiani e piccoli imprenditori, gradevoli persone di tutti i giorni, possibili nostri condomini.

 
BAMBINI
 
Secondo i calcoli degli enti governativi brasiliani, e nonostante i loro sforzi, 9 milioni di bambini sono praticamente randagi, nelle strade. Molti vi vivono giorno e notte, sbrigativamente uccisi con tragica frequenza da qualche poliziotto prezzolato dai commercianti infastiditi; o trascinati negli orrendi carceri della Febem, l’ente che dovrebbe garantire quello statuto ONU dei diritti dei bambini che il Brasile ha inserito già nel 1990 nella propria costituzione. Almeno un quarto del ragazzi brasiliani fra i 10 e i 14 anni lavora, sotto-pagato, in mestieri pesanti e pericolosi, per non dire dei piccoli pushers  o manovali del crimine. Due città brasiliane, Fortaleza e Recife, sono diventate capitali della pedofilia in America Latina: si calcola che i bambini brasiliani coinvolti nella prostituzione siano 500 mila. I “turisti sessuali” che arrivano ogni anno in Brasile, sono valutati in 700 mila; almeno 80 mila sono italiani.
 
La prostituzione infantile brasiliana non è certamente l’unica del mondo. Tocca milioni di bambini e bambine in varie nazioni (dal Guatemala ai paesi asiatici devastati dallo tsunami a quelli dell’Est europeo), seguendo i confini dell’area della miseria. È un fenomeno non recente. Ricordo che trent’anni fa, con Giuseppe Fiori, inserimmo in “Gulliver”, fortunata rubrica culturale televisiva, un’inchiesta sui postriboli tailandesi. E rammento la faccia disperata di una ragazza riuscita a fuggire da un bordello per “turisti” e a riparare in una organizzazione cattolica: “Ho diciassette anni e sono stata là dentro per quattro. Ho calcolato che mi sono passati addosso più di 5 mila uomini. Ho schifo del mio corpo”. 
 
Negli ultimi tempi sembra che in Thailandia la situazione sia un po’ migliorata; ma certamente il fenomeno si è aggravato su scala mondiale, a causa dell’aumento dei flussi turistici e della proliferazione di agenzie specializzate.

V’è di peggio. Per timore dell’AIDS, lo sfruttamento si dirige verso bambini sempre più piccoli, ritenuti indenni dalla peste del secolo. Ha detto a Dimenstein un trafficante di carne umana: “Basta che le bambine pesino dai trenta chili in sù”.

 
UNA CAMPAGNA DI SENSIBILIZZAZIONE
 
Le responsabilità italiane in questo autentico genocidio morale e psichico sono così pesanti che un gruppo di organizzazioni non-governative del nostro Paese, cui si sono associati enti pubblici e privati, ha deciso di lanciare una “Campagna contro il turismo sessuale“. Si tratterà di lottare contro una psicologia razzista che porta a ritenere meno gravi, meno delittuose, certe realtà soltanto perché producono sofferenze in luoghi lontani dal nostro Paese e percepiti come “inferiori” dal punto di vista della civiltà, a causa della diffusione della miseria; e anche si tratta, mediante il sostegno di alcune realtà già esistenti in Brasile, di rendere meno difficile alle piccole prostitute l’allontanamento dalle strade della miseria.
 
Presentato al Forum mondiale di Porto Alegre (luogo adattissimo per un battesimo di speranza) al progetto è stato garantito ogni appoggio da Lula, che ha ringraziato i promotori con una lettera affettuosa.

In Italia, per fortuna, non si parte da zero. La sezione italiana di ECPAT (una preziosa organizzazione  internazionale fondata nel 1991) ha già ottenuto alcuni grandi successi. Con una vasta opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, è riuscita a far votare dal Parlamento, nel 1998, una legge, assai severa, “contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia e del turismo sessuale a danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù”. Nel 2000, poi, ha promosso un Codice di condotta dell’industria turistica italiana, sottoscritto dalla stragrande maggioranza degli operatori.
 
Concentrarsi, adesso, su un solo Paese come il Brasile (in cui anche  il turismo “pulito” italiano non soltanto è presente ma lo è in grandi numeri), consentirà di illustrare meglio le situazioni, di verificarne la repressione, di dare nuovo impulso e maggiori informazioni, su questa battaglia di civiltà. Chi si lamenta che non è possibile umanizzare la globalizzazione  ha un’opportunità per ricredersi. Per maggiori informazioni, clicca qui.

 
OSCAR ARNULFO ROMERO [1980] 
24 marzo: venticinquesimo anniversario del martirio di monsignor Oscar Arnulfo Romero. Per “JESUS” (il mensile su cui tengo una rubrica) ho scritto:
 
Anno 1978. L’ambasciatore de El Salvador presso la Santa Sede è il rampollo di una delle 16 famiglie che possiedono il piccolo stato. Abita nel più lussuoso hotel di Roma. Ama ricevere eminenze, eccellenze, personaggi vaticani. Offre liquori di gran marca e chiacchiere velenose: oh, quell’arci-vescovo Romero! I suoi preti girano in sottana durante il giorno, ma la notte si uniscono ai guerriglieri; fumano mentre celebrano la messa; e poiché il vino, nel Salvador, è bevanda che i poveri non possono permettersi, per pura demagogia consacrano il caffè. No, non cattivo quel Romero, ma pronto a inalberarsi se gli sembra che il governo indurisca la mano contro i terroristi, non cattivo, ma candido come un ragazzo sprovveduto. Per dirla meglio, un povero sciocco (“Quanto mi duole, eminenza, parlare così di un vescovo!”), un povero sciocco strumentalizzato dai comunisti…
 
Anche a certi vescovi quel confratello non piace. Chiesa e Stato (dittatoriale) avevano un ottimo modus vivendi, monsignor Romero ha rotto e rompe quei rapporti, allegando la necessità di difendere i poveri: come se la Chiesa non l’avesse mai fatto, elemosinando dai ricchi, per i campesinos, salari non di fame. Lui. invece, no: parla di diritti, di giustizia. Un gran rompiscatole, diciamolo pure: o, almeno, un imprudente.
 
Già, imprudente! Ma, come ha scritto un suo amico, un altro vescovo imprudente, dom Helder Camara, di Olinda e Recife, in Brasile, anche  monsignor Oscar Arnulfo Romero avrebbe potuto rispondere:
 
La maggiore e più grave
 delle imprudenze
 è la propria prudenza, che si fida di sé,
 si trasforma in calcolo
 e prescinde dalle follie di Dio
”.
 
Per le sue imprudenze, che consistono nell’accorrere là dove c’è stato l’assassinio di un prete (“Haga patria, mata un cura: sii patriottico, uccidi un prete” scrivono sui muri del Salvador gli squadroni della morte) o s’è appena compiuto un eccidio di campesinos, o bisogna ricomporre il cadavere di un uomo orribilmente torturato ma soprattutto c’è da gridare forte contro la violenza generalizzata dei “corpi speciali” sui poveri, l’arcivescovo Romero viene ucciso venticinque anni fa, il 24 marzo 1980, mentre celebra una messa vespertina. Il giorno precedente, nella sua omelia domenicale, si è appellato ai soldati perché non usino più le armi contro i poveri.

I poveri che lo avevano “convertito”, come lui diceva, con la loro inermità e la loro fiducia, le loro disperate speranze, accorrono da tutte le parti del Salvador. Non hanno dubbi, Romero è un santo, il loro santo. Lo sentono ancora più loro quando, durante i funerali, gli squadroni della morte sparano per ore sulla folla: sessanta morti, trecento feriti. Il governo militare non interviene.
 
È un santo, è un martire monsignor Romero? I poveri non hanno dubbi, non ha dubbi chi ricorda: il Concilio ha affermato che la Chiesa vede nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Salvatore, Ma ci sono ambienti in cui stare con i poveri significa fare politica, stare con i comunisti. La causa di beati-ficazione dell’arcivescovo avanza col passo esitante dei vecchi molto vecchi.

Mi dicono che ogni tanto qualche campesino, dopo avere pregato davanti alla tomba di Romero, col taglio della mano a coltello rimuove la polvere dalla lapide.
 
Ettore Masina


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