[di Sergio Finardi • 26.11.01] La materia di base dei conflitti tra le potenze - e dei conflitti tra queste e il resto del mondo, come mostra la vicenda della guerra in Afghanistan - è la concorrenza e lo scontro per il controllo delle risorse strategiche e dei settori economici collegati. Un controllo che concorre alla formazione degli elementi fondamentali dell'egemonia, sia essa globale o regionale. In qualsiasi modo concorrenza e confronto si camuffino - conflitti di nazionalismi, religioni, etnie, ideologie, gruppi economici - si troverà frequentemente al fondo di esse la lotta per il controllo di uno o più settori strategici, o per un loro segmento.

LA MERCE, ANIMA DELLA GUERRA

Settori o sottosettori economici strategici sono quelli il cui controllo – a livello nazionale o internazionale – consente di detenere le leve di funzionamento di tutti gli altri settori economici. Possiamo farne un sommario elenco: la grande produzione agricola per l’alimentazione umana ed animale e per la produzione di fibre naturali per l’industria; l’individuazione, sfruttamento e gestione delle fonti di acqua ad uso umano, agricolo e industriale; l’estrazione, produzione e commercializzazione dell’energia; l’estrazione e la preparazione di metalli e minerali indispensabili per le produzioni industriali, dai macchinari industriali, ai mezzi di trasporto, agli armamenti e ai computers; la ricerca tecnologia avanzata ad uso militare e il connnesso apparato militare-industriale; il trasporto merci internazionale, il cui controllo è fondamentale per la circolazione dei beni. In ognuno di questi settori il conflitto economico o militare o lo scambio consensuale o forzato nascono ovviamente dal fatto che gli stati hanno un diverso grado di accesso o di specializzazione in questi stessi settori, ma nessuno ne può prescindere. E’ importante notare che alcuni di questi settori, in particolare quelli che dipendono più dalle dotazioni naturali che dalle risorse umane, ha limiti oggettivi di sviluppo. É noto che gli uomini amano scannarsi per le più diverse ragioni e non ha molta importanza quello per cui credono di scannarsi. L’importante è il motore primo che utilizza l’animosità, il fanatismo e l’estraneità tra differenze – politiche, culturali, religiose, etniche – per raggiungere un obiettivo di potere. L’odierna tendenza alla ripresa dei conflitti nasce non tanto dalla fine dell’equilibrio della cosiddetta guerra fredda – come spesso si dice – ma dal fatto che in alcuni settori strategici il limite dello sviluppo, contemplabile nell’orizzonte della nostra tecnologia e nel quadro dell’attuale crescita demografica ed economica, non è molto lontano, tra i dieci e i trent’anni. Parlo in particolare del petrolio economicamente sfruttabile, delle risorse idriche e della loro distribuzione ed utilizzo, delle terre coltivabili in modo commercialmente utile, dei minerali e dei metalli rari. La gestione e il controllo di questi settori diviene un elemento indispensabile del gioco delle potenze e tra le potenze. Costruite la tabella dei limiti di sviluppo di questi settori, guardate la mappa delle regioni geografiche che ospitano determinate risorse naturali – e non parlo qui ovviamente soltanto di quella abbastanza nota del petrolio – e otterrete la mappa dei conflitti presenti e futuri, quelli molto evidenti perché militari (oggi più di trenta conflitti attivi in varie regioni del mondo) e quelli segreti e sordi condotti a colpi di crisi finanziarie, di blocchi o di accordi commerciali, di spionaggio industriale, di intese o lotte in organismi come il Fondo monetario internazionale o l’Organizzazione mondiale del commercio.

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Il controllo del cibo

Dirò qui brevemente solo del settore agricolo, perché mentre tutti ne riconoscono la fondamentalità, se ne parla sempre molto poco. Forse non è infatti a tutti noto che nonostante il grande sviluppo della tecnologia di ogni tipo e la grande crescita demografica avvenuti negli ultimi decenni, l’aumento delle terre arabili nel mondo è stato del solo 6,5% nei trent’anni dal 1966 al 1996, ovvero da 1.280 a 1.362 milioni di ettari. Non solo: mentre una buona parte dei 248 stati del mondo ha una sua agricoltura, i paesi autosufficienti dal punto di vista agricolo sono molto pochi e si crea quindi lo spazio economico per le esportazioni dei paesi che producono grandi surplus: i primi 15 paesi al mondo per esportazioni agricole di ogni tipo (rispettivamente Stati Uniti, Francia, Olanda, Canada, Germania, Gran Bretagna, Australia, Belgio, Brasile, Italia, Spagna, Cina, Argentina, Thailandia e Danimarca) coprono il 66% delle importazioni agricole mondiali (oggi circa 600 miliardi di dollari all’anno), tenendo in pugno parecchia altre nazioni. Le maggiori multinazionali dell’agro-business che controllano produzione e distribuzione mondiale di prodotti agricoli sono inoltre non più di una ventina, tutte appartenenti ai paesi industrializzati maggiori. Se potessimo prendere in considerazione il settore dei minerali e metalli strategici, troveremmo una concentranzione ancora maggiore e solo un pugno di paesi (tra i quali Russia, Cina, Canada, Stati Uniti, Australia e Sudafrica) sono significativi produttori ed esportatori (tra i 6 e i 12 tipi) di quei prodotti indispensabili.

La bilancia del potere

Se vogliamo comprendere come dalla necessità di controllare certi settori si passi ai conflitti o ai confronti, ovvero alla parte dinamica delle relazioni di potenza, dobbiamo saper tenere insieme sia le ragioni contingenti che quelle strategiche. Queste ultime alludono al fatto che lo sviluppo ineguale delle forze economiche nelle varie regioni del mondo, e lo sviluppo ineguale dei settori che abbiamo visto sopra, modifica progressivamente l’equilibrio, la bilancia appunto, di potenza di queste stesse regioni tra loro e tra i paesi che le compongono. Questa dinamica concorre a creare i presupposti perché si squilibrino poi progressivamente anche le bilance di potenza militari e politiche. Tenere sotto controllo il progredire degli squilibri e raggiungere nuovi equilibri è elemento essenziale delle politiche internazionali, militari ed economiche, delle grandi potenze. Dobbiamo dunque riflettere al fatto che se è giusto cercare oltre le cortine della propaganda i motivi economici possibili di un certo conflitto, dobbiamo anche tenere presente che è la dinamica stessa degli squilibri di potenza a esercitare un’attrazione fatale su quegli stati che aspirano a mantenre o raggiungere un’egemonia globale o regionale. Il controllo dello sviluppo dei settori strategici si esercita anche con il controllo complessivo delle bilance di potenza regionali. L’attuale crescente tendenza aggressiva, economica non meno che militare, degli Stati Uniti, dell’Europa occidentale e, più timidamente, del Giappone non è frutto di un ormai incontrastato potere, come vorrebbe il senso comune, ma è all’opposto legata alla consapevolezza che gli establishment di queste potenze hanno del loro inevitabile declino relativo, un declino che li porterà ad essere in breve simili a paesi come la Cina, la nuova Russia, l’India, il Pakistan, l’Indonesia, il Brasile, l’Iran. L’orizzonte del declino relativo delle potenze attuali, ed in particolare degli Stati Uniti, è anche qui non molto ampio, trent’anni e per certi aspetti molto meno. Dopo di che, lo si è già ricordato su queste colonne, l’insieme di paesi di cui s’è detto prima costituirà una serie di poli con potenza economica e militare complessivamente superiore alla triade Stati Uniti, Europa e Giappone, che tenterà di ritardare con ogni mezzo o controllare/gestire gli esiti della crescita di tali paesi. Si guardi con queste lenti all’utilizzo statunitense degli squilibri prodotti dai primi bagliori della cosiddetta crisi finanziaria asiatica del 1997/98 e si otterrà la visione di una battaglia fondamentale che l’establishment statunitense ha condotto per indebolire l’autonomia di Giappone e Cina grazie all’indebolimento delle aree vicine di penetrazione finanziaria e commerciale, i paesi emergenti dell’Asia orientale, la Corea del Sud, la Thailandia, la Malaysia, l’Indonesia. E’ noto che dopo la crisi, buona parte degli apparati industriali e commerciali di questi ultimi paesi è ripassata, a prezzi di realizzo, nelle mani della finanza Usa.

 

Il crocevia afghano

Si guardi ancora con queste lenti il rinnovato sfruttamento da parte di Stati Uniti ed Europa di tutti i possibili elementi di crisi – terrorismo compreso – nelle regioni mediorientali, caucasica e centro-asiatica: e si mostreranno evidenti tutti gli elementi di un complesso gioco che mira in primo luogo a impedire un rapporto più paritario dei paesi petroliferi di queste tre regioni con le grandi compagnie energetiche statunitensi ed europee e a contrastare il controllo degli stessi paesi sui corridoi di trasporto delle proprie risorse verso i mercati. In secondo luogo a mantenere conflittuale l’area di snodo tra Pakistan, India e Cina (ovvero l’Afghanistan e il Kashmir), soprattutto per impegnare la Cina sul suo fianco occidentale, impedirle di normalizzare le difficili relazioni con l’India e conseguentemente contrastare una possibile cooperazione tra i due giganti demografici mondiali. In terzo luogo a ritardare o rendere difficile la ripresa della proiezione della Russia verso i paesi che si affacciano o sono di transito verso l’Oceano Indiano, area di passaggio strategico del commercio internazionale e delle rotte petrolifere verso l’Asia e l’Europa; in quarto luogo ad inserire il cuneo della presenza militare statunitense ed europea ai bordi meridionali e strategicamente fondamentali (l’Afghanistan) dell’area di incontro tra Cina, Russia e alcuni paesi asiatico-centrali, area definita di fondamentale importanza dagli accordi di sicurezza siglati a Bishek due anni fa. Molti altri esempi potrebbero essere fatti, ma ciò su cui mi sembra importante continuare a lavorare – anche in relazione allo straordinario oscuramento e censura che l’attuale presunta lotta al terrorismo ha portato con sé – è proprio il piano strategico su cui si sviluppa oggi come non mai l’azione delle potenze e l’immnensa ipocrisia dei nuovi signori della guerra “giusta” e dei loro assordanti sostenitori nei media e nei parlamenti. Nuova instabilità, nuovo terrorismo e nuove crisi consentiranno di continuare a stabilire le regole del gioco nel futuro prossimo e a questo puntano, ma le maggioranze cilene che hanno costruito nei parlamenti europei e statunitense, e l’annullamento di qualsiasi possibilità di vero dibattito di fronte all’opinione pubblica, sono il segno di un profondo declino dell’occidente, non del contrario.