[di Sergio Paronetto • 22.01.01] La discussione sull’ “uranio impoverito” può diventare l’occasione per riflettere su alcuni problemi rilevanti tra loro collegati. Sta venendo a galla  quello che gli oppositori alla guerra  (inascoltati, rimproverati o irrisi) sapevano fin dai primi giorni dei bombardamenti in Kosovo (e dalla Guerra del Golfo di dieci anni fa) a proposito delle armi impiegate, del tipo di guerra in atto e della guerra in generale (“avventura senza ritorno”, ammoniva Giovanni Paolo II).

L’IPOCRISIA (IMPOVERITA) DELLE GUERRE UMANITARIE

La doverosa solidarietà con le vittime deve essere lucida. L’allarme e la protesta per la salute dei soldati risultano, francamente, paradossali ma, in fondo, possono fare chiarezza. La questione “uranio impoverito” svela, anzitutto, l’imbroglio della cosiddetta guerra “pulita”, “chirurgica”, “intelligente”. Mette in luce l’ipocrisia della “guerra umanitaria”. Nessuno può ritenere la guerra un’operazione assistenziale o scambiare gli eserciti per organizzazioni di solidarietà. Non è cambiando il nome alla guerra che se ne cambia la sostanza. Non c’è mantello di retorica  che possa coprire la vergogna della guerra che è sempre un fatto terribile e devastante. Fare la guerra vuol dire dare e ricevere morte. Usare armi potenti e distruttive (che possono ritorcersi su chi le usa). Provocare e subire danni, i più forti e duraturi possibile. Lasciare un’eredità di lutti e di tragedie. Nel caso del Kosovo, non è stato un grande obiettivo opporre alla “pulizia etnica” di Milosevic la “sozzura radioattiva” della Nato aggravando la già grave situazione iniziale (occorre ricordare che bombe radioattive sono state sganciate anche lungo la costa italiana dell’Adriatico e nel lago di Garda). Era possibile agire altrimenti.  L’unica guerra umanitaria è quella non combattuta e attivamente prevenuta. E’ dovere civile prevenire le guerre.  Le condizioni di accettabilità  di un’impresa militare, anche di quella che intende presentarsi come difensiva e umanitaria, oggi non si verificano quasi mai. La guerra possiede una sua logica inarrestabile, sempre più incontrollabile. E ogni guerra costituisce una sorta di sperimentazione per guerre future. La guerra moderna serve per fare affari, per rimodernare gli apparati bellici, per preparare scenari inediti, per affermare un dominio e anticipare il predominio futuro.  E’ sempre, a suo modo, un macabro laboratorio di analisi sul corpo umano e sulla struttura ambientale. La guerra oggi è sempre totale. Ne sono conferma, nei Balcani, i danni sui civili e le conseguenze di lunga durata che colpiscono l’ambiente naturale, economico e umano, la trama produttiva e riproduttiva, quindi il corpo, la salute di tutti e dei figli, i diritti delle future generazioni, le possibilità di ricostruzione e di ripresa. Gli effetti di  certe contaminazioni ambientali durano migliaia di anni. Compromettono il futuro dell’umanità. I fondamenti della vita.          Era possibile, in particolare, evitare la guerra in Kosovo: sostenendo fin dall’inizio il gruppo Rugova (non l’UCK  superarmato e mafioso);  favorendo l’ “operazione Colomba”, le iniziative nonviolente di molti volontari di pace la cui azione ha evitato per molto tempo la guerra civile nel popolo kosovaro (lo riconosce un importante documento sottoscritto nel marzo scorso dai rappresentanti delle varie religioni presenti nell’area); ipotizzando, in casi estremi, l’intervento della polizia internazionale dell’ONU, l’opera di “caschi blu” o di  “caschi bianchi”  (corpi civili di pace), nonché un’azione diplomatica stringente della Comunità Europea; dispiegando un lavoro informativo completo animato da volontà di pace. Certe campagne mediatiche che anticipano e affiancano le guerre, come eco dei rumori di fondo,  possono riconvertirsi in opera di prevenzione e di sostegno alla forza progettuale della nonviolenza. Bisogna volerlo.Alla luce dei fatti e delle prospettive, è urgente rilanciare tutta la problematica dell’armamento nucleare, radioattivo, chimico, batteriologico. Un significativo documento redatto da Pax Christi International, all’attenzione dell’episcopato cattolico e fatto proprio da molti vescovi statunitensi, richiama idee e proposte dell’ONU e della Santa Sede circa i pericoli  e i provvedimenti da adottare. Tra i pericoli, vengono indicati la probabile ulteriore proliferazione di armi atomiche, l’intenzione statunitense di dispiegare una “difesa missilistica nazionale” che spingerebbe Russia e Cina all’imitazione, la mancata ratifica da parte di alcuni paesi  del  bando totale dei test nucleari, la presenza in Europa di molte armi nucleari tattiche. A questo proposito, occorre ricordare che il Veneto (Verona compresa) è stato luogo di  arsenali e di basi nucleari. Negli anni ’80 si è diffusa un’ampia iniziativa riguardante la creazione di zone denuclearizzate per richiamare l’attenzione sull’assurdità di armi tremende, distruttive e autodistruttive a un tempo, comunque pericolose anche per chi le usa e per il territorio che si vorrebbe difendere.Un aspetto particolare del problema riguarda la presenza, soprattutto, dopo il crollo dell’Urss di un mercato clandestino di materiale nucleare (uranio impoverito e arricchito, mercurio, plutonio) amministrato da bande criminali e mafiose. I commercianti di materiale radioattivo sono numerosi. Anche Verona tra il ’95 e il ’96 li ha conosciuti. C’è stato un omicido collegato al traffico di plutonio. Durante il processo successivo, il giornale locale ( “L’Arena” 2.7.96) ha descritto la città, già coinvolta in commerci di armi e droga (evidenziati dalle indagini di Carlo Palermo), come  una delle basi del traffico internazionale di uranio arricchito, come “crocevia atomico”. In tale ambito, operare per la pace significa lottare contro l’illegalità e la criminalità mafiosa. Costruire la democrazia trasparente.Da ultimo, si ripropone con  urgenza tutto l’ampio problema delle armi, la cui abbondante produzione e il cui incontrollato commercio diventano nell’immediato le cause più evidenti  dello scoppio di molti conflitti: dai Balcani al Caucaso, dalla Turchia alla Colombia, dal Medio Oriente all’Africa Centrale (Congo, Sierra Leone, Sudan…), dall’Indonesia alle Filippine, dall’India al Pakistan…Com’è lungo e triste l’elenco delle guerre !   Per l’Italia è fondamentale applicare la legge 185 del 1990, avviare iniziative di riconversione dell’industria bellica, realizzare il servizio civile, sperimentare forme di difesa nonviolenta. Grave, in tale contesto, è la firma italiana della Convenzione di Farnborough che si sovrappone, limitandola, alla legge 185 favorendo il commercio di armi verso paesi dove si violano i diritti umani. Anche così si può favorire il terrorismo internazionale! Il quotidiano “Avvenire” (2.1.2001) titola un articolo al riguardo con queste parole: “il 2001 rischia di diventare l’anno dei mercanti d’armi”. Per molti operatori di pace la coscienza di aver visto giusto aumenta le responsabilità. Per la politica che intenda richiamarsi  alla civiltà dei diritti umani, è aperta la possibilità di operare per l’affermazione di un nuovo diritto internazionale. Che vuol dire, in estrema sintesi, salvare l’umanità. Verona 8.1.2001.