[di VINCENZO ANDRAOUS • 05.11.2001] - Il Presidente della Camera Luciano Violante ha sottolineato in televisione che circa un milione di ragazzini rischiano nel prossimo futuro di andare incontro a sanzioni penali. A questa affermazione, ho riportato lo sguardo sul foglio di carta bianco che ho sotto il naso, ma, ostinata, la penna è rimasta a mezz'aria. Sto scrivendo a Marco, il mio nuovo amichetto, conosciuto nell'oratorio di un mio amico prete dove qualche volta mi reco in permesso. Un giorno il Don mi chiede se voglio parlare e confrontarmi con altri amici, ma questa volta mi avverte che si tratta di adolescenti delle medie inferiori. Ho accettato con entusiasmo.

IL FALCO DAGLI OCCHI LUCIDI

Da allora tra me e quei ragazzi si é instaurato un rapporto di conoscenza capace di sfociare in amicizia e aiuto reciproco. Non è stato facile, in particolare con Marco, un ometto di tredici anni con gli occhi rapaci. Marco, con la sua storia per molti versi già scritta in tanti ieri che non esistono. Marco, che a scuola non ci va e le poche volte che è presente ha in tasca il coltello. Marco, che frequenta i più grandi e pesta giù duro per essere riconosciuto. Marco che…mi ricorda qualcuno. Stavamo seduti uno di fronte all’altro, lui sapeva che ero un detenuto e mi guardava dritto sparato negli occhi, senza mostrare il più piccolo cedimento. “Com’è il carcere? Ti picchiano lì dentro?”. Chiedeva, quasi a voler esorcizzare la paura che lo invadeva. “Io non ho paura della prigione”, mi ha detto. E io gli ho chiesto: “ Perché non hai paura? “ Perché non possono arrestarmi alla mia età, e poi non mi prenderanno mai, sono troppo furbo io”. “Eppure è sempre il più furbo che alla fine della corsa pagherà per tutti; guarda me: sebbene per qualche giorno sia qui con te, sono invecchiato dentro come il pezzo di carcere che mi ha sepolto”. ” Mi piace fare casino e stare in giro per Milano fino a tardi, ogni tanto dare un calcio a qualche rompi e a scuola fare impazzire i miei compagni e i professori. Che male c’è a prendere un cappellino o un giubbotto a chi ha più soldi di me?”. Mi guarda e cerca di soppesare le mie reazioni, vuole la mia approvazione, il mio rispetto: non me lo chiede, quasi me lo impone. Incredibile, ho innanzi un piccolo duro che non intende fare sconti, neppure a me. Marco, il disadattato, ha trovato nel rischio e nella provocazione la risposta più immediata alla propria sofferenza. Marco che teme il domani. “Voglio essere amico tuo, Vince. Mi piace quando mi racconti le tue cadute e sono contento che ora sei cambiato, ma io non posso cambiare, perché sono fatto così, e poi cosa ho combinato di tanto grave?”. Penso a sua madre oltre oceano, a suo padre troppo impegnato nel lavoro per ritrovarlo la sera in casa, e inciampo in quel suo linguaggio secco e sgangherato da sembrare ordinato. “Quanti anni hai Vince? Vuoi venire a casa mia ? Dai andiamo a fare un giro in centro”. “Ci andiamo più tardi”, gli dico, e, in silenzio, lo osservo mentre gesticola e narra le sue avventure, mi ostino a percepire il suo vero intento. Si accorge della mia trappola e tenta più volte di aggirare l’ostacolo, d’improvviso avvicina le sue mani alle mie, ci tocchiamo più volte le nocche: é il rito che si consuma nel linguaggio del corpo, dell’immagine che effonde potenti ruggiti… O sono vagiti? Ho l’impressione di avere fermato il tempo e, illudendomi, mi travesto per un attimo da adolescente per farmi accettare da quella tigre addormentata. Non lo dice, ma glielo leggo negli occhi: é stanco di tante persone pronte a dargli consigli. I grandi, gli adulti sempre pronti a insegnargli dove sta il bianco e dove il nero, senza mai consentirgli di approfondire il grigio. ” Ho ragione io “, grida, apostrofando malamente un ragazzo di vent’anni che cerca di indurlo a più miti comportamenti. Mi accorgo che é diventato nuovamente lo strumento di studio della nostra coscienza, infatti il ragazzo che prima interloquiva con affabile cortesia, ora rivendica il proprio ruolo di maestro maturo e responsabile, ma non in forza dei valori che tenta di trasmettergli, bensì perché non si ritiene rispettato abbastanza da quel pulcino agguerrito. Parliamo e ci agitiamo tutti, mentre lui rimane attore fedele al suo copione, fermo come un fusto di quercia ci osserva e sorride sornione alle nostre scaramucce intellettuali. Marco e il suo branco al momento lontano, rifugio dei miti e dei suoi pari, oasi rassicurante dove tutto è  condiviso, spazio vitale per le sue trasgressioni. Una consuetudine alla trasgressione che si rinnova e si rigenera all’ombra dell’indifferenza, in uno spazio costretto dove tutto può esser condiviso. Don Giorgio mi guarda, poi sposta lo sguardo su di lui, e ancora su di me, forse stiamo pensando entrambi che questo incontro ci consente di indagare in noi stessi, nelle parole spese male, e la conclusione che ci arriva direttamente sul muso, è che i tanti Marco di questa periferia esistenziale non debbono poi tanto meravigliare né sbalordire per la loro durezza, alla luce della nostra inadeguatezza ad ascoltare, noi così ben   protetti  dalle nostre imperturbabili aspettative. Lui sorride beffardo, per niente stanco o sfibrato, mentre noi esausti e sconsolati non vediamo l’ora di ritornare alle nostre tranquillizzanti attività. “Avevo tredici anni e già cominciavo a intuire cosa voleva dire vivere in povertà e solitudine, senza stupore giunse il primo arresto, mi portarono in un carcere per minorenni…”.Riaffiorano pensieri di un mio testo teatrale che non eviteranno a nessuno di andare ripetutamente a sbattere in un vicolo cieco, ma, chissà, potrebbero indurre alla necessità di una tutela dell’attenzione comprensiva, sensibile. Il giorno del mio rientro in Istituto, al termine del permesso, lui era lì ad aspettarmi: ”Quando ritorni Vince?” “Presto”, gli ho risposto, presto. (12/05/1999)