[Nando Dalla Chiesa •24.03.05] Un autentico saccheggio di patrimonio ideale. A questo sembrava di assistere ieri mattina (23.03.05) al Senato. E l'amarissima sensazione si trasferiva nei gesti, nel clima, nelle parole che pur occorreva pronunciare. Sembrava di assistere a una grande azione di demolizione compiuta in fretta e con poco rispetto per mura e suppellettili (e fondatori) da una immobiliare di arricchiti, vogliosi di rifare il cuore della citta' a proprio uso e consumo...

NANDO DALLA CHIESA: «IL SACCHEGGIO DELLA COSTITUZIONE»

Ora state attenti. Immaginate di essere in uno stadio immenso. E che uno speaker dalla voce tonante annunci a un pubblico sterminato le formazioni delle squadre, usando le cadenze ritmiche di una volta, quelle che hanno fatto la leggenda del calcio. Immaginate di sentire la formazione della prima squadra, che chiameremo “Costituzione 1”. Eccola. Ascoltatela bene. Nenni; Einaudi, Parri; Saragat, De Gasperi, Togliatti; Calamandrei, Moro, Pertini, Croce, Dossetti (con panchina di lusso: Valiani, Amendola, Nitti, Terracini, La Pira, Lazzati, Di Vittorio, Ruini, la Malfa senior…).

E immaginate poi di ascoltare, nel frastuono della folla e della Storia, la formazione della seconda squadra, che chiameremo “Costituzione 2”. Eccola di nuovo. Ascoltate bene anche questa. Bondi; D’Onofrio, Nania; Bossi, Calderoli, Castelli; Schifani, Pastore, Berlusconi, Fini, Previti (con panchina assai più risicata, ma su cui siede, lo si riconosce in lontananza, La Malfa junior). Senza offesa per nessuno, e ben sapendo che il vero valore dei politici lo misurano i posteri, la differenza tra le due formazioni appare perfino imbarazzante: comunque sufficiente a dire di che cosa sia capace l’una e di che cosa sia capace l’altra. Il guaio e’ che se gli antichi godono i frutti della fama che si tributa a chi non c’e’ più, i posteri godono della possibilità di agire indisturbati contro i loro avversari. Le umane vicende li hanno infatti resi vincitori di libere elezioni ed essi fanno quel che gli pare.
 
Un autentico saccheggio di patrimonio ideale. A questo sembrava di assistere ieri mattina (23.03.05) al Senato. E l’amarissima sensazione si trasferiva nei gesti, nel clima, nelle parole che pur occorreva pronunciare. Sembrava di assistere a una grande azione di demolizione compiuta in fretta e con poco rispetto per mura e suppellettili (e fondatori) da una immobiliare di arricchiti, vogliosi di rifare il cuore della citta’ a proprio uso e consumo. Il risultato? Fate la seguente operazione-finestra. Andate su Internet e leggetevi il testo uscito dal Senato. E prima ancora di vedere che cosa  c’e’ scritto, osservate un’altra cosa, forse più importante: la lunghezza degli articoli. E poi ficcateci dentro il naso e, sempre prima di studiare i contenuti, guardate come quegli articoli sono scritti. E’ impressionante, fa perfino impallidire la differenza tra il testo originale e quello odierno.

Tanto sono stringati, brevi, incisivi, solenni, gli articoli della Costituzione, tanto sono lunghi, prolissi, sbrodolati, tignosi, gli articoli di questo guazzabuglio. Nella Carta fondativa della Repubblica c’e’ una quasi plastica rassegna di principi. Poche parole per scolpire i valori, i grandi punti di riferimento di un Paese che vuole tornare alla democrazia dopo il fascismo e la tragedia bellica e i campi di sterminio. Nel testo approvato ieri un articolo può durare pagine, proprio come e’ già avvenuto nel testo più pazzo del mondo, quello che pretende di riformare, anziché la psiche dell’estensore, l’ordinamento giudiziario della Repubblica. E tanto e’ chiaro e netto il linguaggio della Carta uscita dalla Resistenza, al punto che anche un ragazzino la può leggere e capire, altrettanto involuto e avvocatesco e’ il linguaggio di questa Carta uscita dalla baita estiva di Lorenzago.
 
Più che una Costituzione, il Senato ha licenziato ieri qualcosa che, dal punto di vista dello stile, sta a metà tra un codice e un regolamento di condominio. Sarà un caso ma il solo articolo che, nel cambiamento, e’ rimasto asciutto come prima e’ quello che riguarda il bilancio dello Stato; poiché in tema di bilanci, come sappiamo, è sempre meglio non esagerare con obblighi e prescrizioni.

Ma perché, questa è la domanda, ad articoli brevi e solenni si sostituiscono (come già con l’articolo 111 sul giusto processo ai tempi dell’Ulivo) dei dettagliati ordini di servizio? Perché la riga e mezzo dell’articolo 70 (la funzione legislativa) diventa uno sproloquio di  romanzo in burocratese?
 
La risposta e’ semplice, mortificante. Perché mancano i principi, perché non c’e’ il compromesso nobile di chi costruisce qualcosa insieme sapendo che terrà fede, nello spirito anzitutto, all’impegno scritto. Perché è friabile il terreno su cui si costruisce. Per questo occorrono mille aggiustamenti, paletti, filtri, aggiunte, condizioni e riserve. Perché quasi nulla si tiene in proprio, sulla base di un patto di fedeltà. Ma le Costituzioni che vengono scritte così sono Costituzioni senz’anima. Nascono morte.

Che dire a questo punto? Tornare alle critiche tante volte espresse, sulla dittatura della maggioranza (concetto fornito di piena cittadinanza nella storia delle dottrine politiche), sullo sbilanciamento dei poteri, sulla corrosione delle garanzie, sul federalismo fasullo ma con in sé il dna della secessione? Forse oggi, poiché le scene di vita danno colori più limpidi alle battaglie delle idee, conviene mettere nello zaino della propria memoria ciò che si e’ visto e sentito. Il mio gruppo parlamentare che ha goduto di tre-minuti-tre a testa per discutere la nuova Costituzione.

I silenzi dell’Udc, che lanciava urla strazianti invocando che si fermasse la “deriva” in atto e che in aula ha taciuto rigorosamente salvo parlare alla fine per la bocca del senatore D’Onofrio; il quale, con i capelli corvini delle grandi occasioni, ha spiegato – lui ex ministro – che in più di mezzo secolo in Italia non c’e’ stato pluralismo. E poi ha pure spiegato che non e’ vero che aumentano i giudici costituzionali di nomina politica, anzi sono diminuiti. Oggi, ha assicurato, sono cinque; ora diventeranno di meno, perché la Camera dei deputati ne nominerà tre, e i quattro del Senato mica sono politici, quello sarà il Senato federale. Lo volete capire o no?, ha chiesto in segno di sfida all’opposizione. No, gli e’ stato risposto in coro. E poi i motteggi dei leghisti, particolarmente in vena contro la patria e contro lo Stato e contro Ciampi, nel loro gioco beffardo di rimandi di banco in banco. Sono pesati e hanno fatto clima, in generale, i silenzi della maggioranza. Una Costituzione stupenda e modernissima, su cui in aula però i suoi sostenitori hanno speso una minuscola manciata di interventi, a dispetto di chi in futuro tenterà di capire le ragioni di tanto entusiasmo attraverso gli atti parlamentari. Di corsa, senza pathos, ma con la dovuta retorica negli interventi conclusivi. La retorica che ha portato il senatore Pastore (nome felicissimo per chi guidava il mansueto e disciplinato gruppo di Forza Italia) a giurare che la maggioranza ha le sue radici nell’antitotalitarismo, si tratti del totalitarismo di sinistra o di destra (e questa e’ un po’ azzardata, ne converranno anche i “terzisti”).

La mente torna alla faccia sbigottita degli autonomisti trentini, che si sono trovati inopinatamente buggerati – le promesse non sono state mantenute, giuravano -, con meno autonomia di quanta ne abbiano adesso, e questo grazie all’agognato federalismo. Torna poi, la mente, alla dignità di Domenico Fisichella e del suo dissenso in omaggio ai valori della Destra, o di Renzo Gubert, il sociologo trentino dell’Udc. Torna al tricolore amaramente indossato dall’opposizione e agli striscioni (sempre tricolori) esibiti dalla destra rimasta sola in aula: “Nasce la nuova Italia”, “Stop ai ribaltoni”, “Torna l’interesse nazionale”, roba che ai leghisti un altro po’ gli vien l’infarto. Tutto questo mentre gruppi di senatori dell’opposizione si chiedono costernati e un po’ risentiti chi abbia mai deciso che si esca dall’Aula e se non sia un dovere (civile, istituzionale, il mediatico viene dopo) quello di lasciare scritto il proprio “no” a questa poltiglia indigeribile; e se il voto nel nome degli italiani e della propria coscienza sia qualcosa che si decide nelle riunioni delle segreterie senza neanche un’assemblea di discussione con gli interessati, i quali sono pur sempre deputati e senatori della Repubblica, mica fanti del re. Che questa incolta sovversione avvenga nell’anno sessantesimo dalla Liberazione, come ha ricordato Gavino Angius, rende tutto più simbolico.

Ma deve spingere le forze della democrazia costituzionale a ingaggiare una di quelle grandi battaglie ideali che, nel corso della storia, danno senso alla vita dei partiti. E danno senso anche – non sembri troppo – alla vita dei cittadini.
 
Nando Dalla Chiesa


Fonte: «L’Unita’» del 24 marzo 2005