[di Ilvo Diamanti • 09.09.01] Non ci facciamo mancare niente, a Nordest. Laboratorio totale. Di economia, mercato, politica. Paura. Una paura che corre lungo il percorso che collega le villette del Veneto extraurbano. Poste nella cerchia esterna alle città, dove giungono coloro che fuggono dalla concitazione. Dal traffico. Dalla folla. Nelle periferie di Vicenza e di Verona.

NORDEST – CON IL TARLO DELLA PAURA

Nell’arco pedemontano. Che arriva fino a Brescia e Bergamo. D’altronde, la casa in mezzo ai campi, fra le colline, per il Nordest, non costituisce l’approdo dei nuovi ricchi. E’, invece, un riferimento antico. Un segno di riconoscimento. Di sicurezza. La casa in proprietà. Che nella tradizione contadina coincide con il luogo di produzione, più che di vita. Il centro dove agisce la famiglia-impresa. Dove depositare gli attrezzi, i raccolti. Dove persone e animali vivono vicino. La casa in proprietà. Nel corso dei decenni se la sono costruita in tanti. Spesso da soli. O con i familiari. Sfruttando tutto il tempo “libero” (?). Il fine settimana. Perché per un popolo di migratori, per gente povera, la casa è la sicurezza. La promessa che ti fermerai. Prima o poi. E nessuno ti potrà mandare via, anche in tempi di incertezza del lavoro. Perché disponi di un tetto. E di quattro mura. Per questo la paura che assedia le villette dei piccoli imprenditori, e non solo, segna un punto di svolta, rispetto alla tradizione di questa terra. Uno spartiacque. Tra un passato segnato dal rapporto amichevole della società locale con lo sviluppo e con l’ambiente. E il presente, nel quale la ricchezza individuale e familiare comporta rischi. Non è un fatto nuovo, in verità. E’ ormai da vent’anni che il Veneto ha raggiunto un elevato sviluppo economico. Che ha conquistato il benessere. Mentre è da meno – un decennio, forse – che la società lo ha scoperto. Che si è resa conto di essere diventata più ricca. E agisce di conseguenza. Cambiando stili di vita e di consumo.I villini, le auto di lusso (la cui diffusione in Veneto ha raggiunto i livelli più alti, in ambito nazionale). I viaggi. Si lavora tantissimo. Ma si gode anche di più. Si coltiva il piacere. E si persegue il consumo vistoso. Per dichiarare a tutti che si è arrivati. Con tanti sacrifici. Partendo da zero, o poco più. Ma si arrivati. E ne valeva la pena. Ciò che, fino a qualche tempo fa non era chiaro riguardava le implicazioni meno gradevoli di tutto ciò. I cambiamenti del paesaggio, saturo. Talora devastato. Le strade intransitabili. La campagna consumata. Le città dilatate. Inserite in uno spazio edificato sempre più esteso, sempre più irriconoscibile. Difficile essere davvero felici in questo mondo dove i confini si scolorano. Dove le relazioni sociali si frammentano. Dove è difficile viaggiare. Dove non si cammina più. Dove non incontri più la gente. Un mutamento generale, rapido.Il costo di un successo arrivato rapidamente, per tante, tante persone. Non ce ne rendevamo conto del tutto, fino a qualche tempo fa. Da ciò, anche da ciò, il sottile senso di inquietudine e di insicurezza che si respira. Perché viviamo sempre più soli. Stranieri a casa nostra. Non solo e non tanto perché cresce l’immigrazione. Perché le minacce alla nostra vita individuale e familiare crescono. Ma perché noi stessi abbiamo stravolto il nostro mondo. E stentiamo a riconoscerlo.Tanto più oggi, che l’incertezza si colora di scuro. Diventa paura. Paura delle aggressioni alle ville isolate della periferia veneta. Delle bande di rapinatori (albanesi e non solo) che colpiscono ormai con regolarità quotidiana. Ma anche dei mille reati, meno eclatanti, che affliggono le nostre piccole città, i nostri piccoli paesi. I furti di appartamento. Gli scippi. Le auto che scompaiono. La tentazione di farne “solo” un problema di ordine pubblico è forte. Legittima. D’altronde, combattere la malavita è un compito delle forze di polizia. Però, come non vedere, in questo “modello di criminalità”, in questo “modello di reati”, il riflesso del nostro “modello di sviluppo”? Ma il Veneto, il Nordest, è un territorio di piccole imprese, di piccole ricchezze, piccole ville. Sparse. Che inevitabilmente attirano la malavita. Bersagli difficili da difendere. Ma facili da aggredire. Il Nordest, poi. Fino a dieci anni fa frontiera chiusa, di fronte a un mondo chiuso. Oggi, dopo la caduta del muro, è una frontiera aperta. Che permette alle imprese e agli imprenditori di delocalizzare, ai lavoratori dei paesi dell’est di emigrare da noi in fretta. Una frontiera che, peraltro, ci collega a un’area devastata dalla guerra, da molti anni. Bacata da economie e organizzazioni illegali. Siamo diventati una terra ricca, urbanizzata, che si allarga ulteriormente oltre confine, a Nordest; una metropoli diffusa e inconsapevole, che si allunga verso la Lombardia. Che, per questo, entra nello spazio di riferimento delle bande criminali. Anzi ne costituisce il centro. Fra i Balcani e le metropoli (consapevoli) del Nordovest. E’ difficile rendersene conto. Accettarlo. Eppure i fatti di questi giorni sono lì a ricordarcelo. Che siamo cambiati. Che dobbiamo pensarci e organizzarci diversamente. Che è passato il tempo in cui tutti vivevamo con le porte aperte. Anche perché, negli stessi paesi, tenere le porte aperte significa finire avvelenati dagli scarichi delle auto. E, per i bambini, uscire in strada, dietro a casa, significa correre dei rischi. L’ambiente non ci è più amico. E’ passato il tempo in cui il controllo sociale era determinato dalla presenza e dalla vita delle persone sul territorio. Nessuno, di sospetto, passava senza che venisse percepito. Identificato. Mentre oggi nessuno conosce più nessuno, nelle città; neanche nei paesi. E i più fortunati, d’altronde, dai paesi e dalle città se ne fuggono.Tuttavia è difficile fermare il tarlo della paura che ci rode possa senza ripensare l’organizzazione della nostra società, del nostro territorio. O meglio: certamente, possiamo chiedere e ottenere più controllo esterno, per abbassare il rischio criminale. E possiamo, inoltre, ricorrere maggiormente ai sistemi di sicurezza. Polizie pubbliche e private. Carabinieri e vigilantes. Impianti d’allarme. Finestre e porte blindate. Pitbull e rotweiller nei giardini. Armi accanto al letto. Mura invalicabili. Costeggiate, chissà, da corsi d’acqua affollati da piranas. Scavalcati da ponti levatoi. Ma davvero così diventeremo più felici? Più liberi? Più “sicuri”? Meno prigionieri e meno stranieri a casa nostra.