RICCARDO PETRELLA: «LA POVERTÀ NON VA DIMEZZATA MA SRADICATA»

La proclamazione, nel 2000, degli “Obiettivi del Millennio per lo sviluppo”, con cui le Nazioni Unite si sono – solennemente come al solito – proposte di dimezzare il numero di poveri entro il 2015, ha trovato fin dall’inizio buona accoglienza nella maggior parte delle associazioni e delle ong internazionali. L’Università del Bene Comune, insieme ad altre associazioni ed Enti locali, ha preso invece le distanze, leggendo nell’approccio dell’Onu piuttosto un’abdicazione da parte della comunità internazionale rispetto al principio del diritto alla vita per tutti gli esseri viventi. Da qui una proposta di segno diverso: quella di dichiarare illegale la povertà, identificando una Norma Internazionale Povertà Zero con cui misurare il livello di riduzione della povertà raggiunto nelle varie città attraverso la difesa dei diritti fondamentali e dei beni comuni: acqua, salute, casa, istruzione, lavoro. A presentare la proposta, al convegno dal titolo “Dai poveri illegali alla illegalità della povertà”, svoltosi il 9 e 10 settembre a Firenze, è stato Riccardo Petrella, ideatore dell’Università del Bene Comune, chiamato recentemente dal presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, a gestire l’acquedotto pugliese, uno dei maggiori in Europa. Di seguito il suo intervento, tratto da una registrazione e non rivisto dall’autore.

Leggevo prima su uno striscione qui esposto la frase “la ricchezza vive sovrapposta alla miseria”. In realtà, non è che la ricchezza sia sovrapposta alla miseria, è che la ricchezza attuale crea, ha bisogno di creare, miseria. Il punto centrale è se effettivamente il sistema sia generatore di esclusione, di impoverimento, di ineguaglianza. Perché se il sistema è tale da generare strutturalmente ineguaglianze, allora la povertà è il prodotto di questo sistema. Se invece pensiamo che la povertà sia un fatto congiunturale, che la responsabilità ricada, come dice la classe dominante, su quelli che sono poveri, allora è chiaro che la ricchezza nel sistema attuale viene giustificata e che in fondo questa povertà diventa una specie di malattia non voluta. La proposta che vogliamo avanzare è invece quella di negare che la povertà sia un risultato occasionale o dovuto ai poveri stessi e riconoscere che è il sistema come oggi è strutturato a generare necessariamente povertà. È da qui che viene il nostro dissenso rispetto all’approccio seguito dalla comunità internazionale, che, dal 14 al 16 settembre, si ritroverà al Vertice delle Nazioni Unite a New York per fare il punto sulla povertà nel mondo e sullo stato di avanzamento degli “Obiettivi del Millennio per lo Sviluppo”, cinque anni dopo la loro proclamazione “solenne”, e a dieci anni dal termine fissato per la loro realizzazione, il 2015.

Siamo in dissenso con l’approccio delle Nazioni Unite, perché pensiamo che la base teorica, etica e politica degli Obiettivi del Millennio rifletta i principi che strutturano l’esistenza della povertà nella nostra società. E con il nostro dissenso vogliamo sensibilizzare l’opinione pubblica perché non cada prigioniera di una prospettiva basata sul principio dell’inevitabilità naturale della povertà.

Ora, è penoso dirlo, ma sappiamo già quel che diranno i potenti a New York. Affermeranno che, grazie ai progressi considerevoli compiuti in questi ultimi anni soprattutto dalla Cina e, in misura minore, dall’India, la povertà è diminuita nel mondo: cioè il numero di persone con un reddito superiore a due dollari al giorno è aumentato (oggi sono poveri assoluti – coloro che hanno meno di due dollari al giorno – 2,8 miliardi di persone, e di questi 1,3 miliardi sono “estremamente poveri”, cioè con meno di un dollaro al giorno). Deploreranno, tuttavia, il fatto che, malgrado gli sforzi da loro compiuti, il numero degli “estremamente poveri” rischia di restare nel 2015 al di sopra del miliardo e quello dei poveri di mantenersi di poco inferiore ai due miliardi. Ci diranno così che nel 2015 ci saranno ancora più di 3 miliardi di esseri umani che vivranno nella povertà assoluta, e che la povertà resterà ancora per molti decenni un dato sociale “naturale”. In fondo, ci stanno suggerendo, non si può eliminare la povertà. Cosa hanno detto, del resto, nel 2000, quando sono stati fissati gli Obiettivi del Millennio? Che il raggiungimento dell’obiettivo dello sradicamento della povertà non è un obiettivo realistico. E che quindi, in fondo, la povertà è un fenomeno naturale: come ci sono le stagioni, il sole, la pioggia, così c’è anche la povertà. E che tutt’al più quello che si può fare è essere compassionevoli e aiutare i poveri a migliorare le loro condizioni. Non dimentichiamo che l’altra tesi della classe dominante è che in fondo se uno è ricco è perché l’ha meritato e che la povertà è la punizione per chi non è stato capace di diventarlo.

La nostra società, specie negli ultimi 30 anni, ha scaricato su coloro che sono deboli, che sono poveri, che sono handicappati, malati, in difficoltà, la ragione della loro situazione. Ecco perché i poveri sono normalmente mal visti. Ecco perché gli immigrati diventano tutti clandestini. Ecco perché quanti provengono dai Paesi arabi, dai Paesi africani, dai Paesi dell’Asia sono tutti potenziali terroristi. Ecco perché i poveri, soprattutto neri, di New Orleans sono stati accusati di agire come degli sciacalli e che pertanto era legittimo sparare loro per proteggere i beni commerciali e la proprietà privata, considerata più importante del diritto di sopravvivenza dei poveri (i quali non sono mica potuti andar via come sono andati via i ricchi, ed erano cinque giorni che non avevano niente da mangiare e da bere: ma per la classe dominante erano sciacalli). Ecco, infine, perché i poveri li abbiamo illegalizzati.

Perché dovremmo considerare naturale e inevitabile che fra 15 anni ci saranno ancora 3 miliardi di poveri, quando nessun economista serio può addurre ragioni economiche per dire che la povertà non può essere sradicata? Non c’è nessuna ragione economica rigorosa che spieghi come mai non sarebbe possibile sradicare la povertà nell’arco di 15 o 20 anni.

Come la schiavitù, la povertà è il risultato del comportamento e delle azioni degli esseri umani in società. È un prodotto sociale, non è un fatto naturale. Non è perché le classi dirigenti degli ultimi trent’anni si sono rivelate “strutturalmente” incapaci di sradicare la povertà nel mondo che questa diventa, ipso facto, inevitabile e, quindi, accettabile, “legale”. È possibile cambiare quello che ci è dato come inevitabile.

LE RAGIONI DEL FALLIMENTO

Ci sono cinque ragioni fondamentali del fallimento della politica di lotta alla povertà. La prima ragione è che i Paesi ricchi non hanno mantenuto le promesse fatte nel 1974 e poi ripetute nel corso di vent’anni fino al 1995, e cioè l’impegno di allocare lo 0,7% del loro Pil all’aiuto allo sviluppo nel mondo. Tra il 1975 e il 2000 hanno allocato in media lo 0,36% (gli Stati Uniti meno dello 0,21%, imitati in questo dall’Italia). Ma se per raggiungere un obiettivo si investe la metà di quanto è ritenuto necessario, è naturale che l’obiettivo non venga centrato. E questo è stato fatto per 25 anni! E ora, di fronte all’aumento dei poveri assoluti, dicono che ormai si può giusto pensare di allocare lo 0,39% del Pil entro il 2015: molto meno di quanto si erano impegnati a fare nel ’74. I potenti si incontreranno a New York per dire: scusate, ma rischiamo di non realizzare nemmeno gli Obiettivi del Millennio per lo sviluppo. l’obiettivo, già ridimensionato, di ridurre a metà il numero degli estremamente poveri, quelli cioè con meno di un dollaro al giorno. È accettabile tutto questo?

Ma quel che è peggio, ed è la seconda ragione del fallimento, è che i Paesi ricchi hanno addirittura deciso di erogare in questi anni ai propri produttori agricoli circa 340 miliardi di dollari in sussidi all’esportazione, quando sappiamo bene che, se noi sussidiamo i nostri prodotti agricoli affinché siano competitivi sul mercato mondiale, i Paesi poveri non ce la faranno a tenere il passo, perché non hanno il denaro per sovvenzionare le loro esportazioni. Quindi, non solo non abbiamo mantenuto le promesse, ma abbiamo speso un sacco di soldi, tra il 1990 e il 2001, per uccidere l’agricoltura dei Paesi poveri.

Impoverendoli doppiamente: impediamo loro di esportare, quindi di avere reddito, e li obblighiamo ad acquistare i nostri prodotti. Con la conseguenza dell’abbandono delle terre, della desertificazione dei villaggi e dell’aumento anarchico delle città povere.

La terza ragione è che, non soddisfatti di ciò, i Paesi ricchi hanno imposto ai Paesi poveri delle inique politiche di liberalizzazione dei mercati e di deregolamentazione delle attività economiche, che hanno condotto a dei cambiamenti nefasti nelle economie locali a vantaggio di logiche e di interessi speculativi. Abbiamo creato, specialmente tra il ’73 e il ’75, un sistema finanziario completamente sregolato e liberalizzato. Un sistema impazzito che fa sballare gli anelli deboli del sistema economico-finanziario mondiale. Ecco perché la crisi del Messico, del Sud Est Asiatico, della Russia, del Brasile, dell’Argentina. E sapete cosa hanno significato queste crisi finanziarie? 150 milioni di nuovi poveri.

La quarta ragione del fallimento è che negli ultimi 30 anni, a partire dalla metà degli anni ’70, i Paesi ricchi hanno deliberatamente pianificato e applicato una politica di conquista o di controllo effettivo delle risorse del pianeta: risorse biotiche (semi, piante, animali), risorse energetiche, risorse idriche. Il perché delle guerre sugli ogm, i semi, le piante, le varietà di riso o di cacao, ecc. è nel fatto che abbiamo imposto il diritto di proprietà intellettuale: attraverso i brevetti, siamo entrati in possesso di praticamente tutte le specie, anche se il 92% del capitale biotico del mondo si trova nelle foreste tropicali o subtropicali. Ci siamo impadroniti della loro ricchezza. E quando vogliono utilizzarla per loro, come nel caso dei medicinali, li portiamo addirittura in tribunale. E chi è che controlla l’acqua dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia? Sempre noi, perché abbiamo imposto la liberalizzazione dei servizi idrici a livello di Organizzazione mondiale del commercio. L’Unione Europea, attraverso il commissario al Commercio Pascal Lamy, un socialista francese, ha chiesto ai 72 Paesi più poveri del mondo di liberalizzare i servizi idrici, perché le imprese idriche più potenti del mondo sono quelle francesi, inglesi, tedesche.

La quinta e ultima ragione è che i Paesi ricchi hanno deciso di abbandonare l’obiettivo dello sradicamento della povertà, di non considerare più la lotta alla povertà come l’obiettivo principale della politica dello sviluppo mondiale. L’11 settembre non ha fatto altro che dare piena legittima-zione al cambiamento di obiettivi. Il cambiamento ha cominciato a manifestarsi agli inizi degli anni ’80, quando Reagan e Thatcher conquistano la leadership politica degli Stati Uniti e del Regno Unito. In pochi anni, due principi prendono il sopravvento: 1) non v’è alternativa al mercato: lasciamo, si afferma, alla competizione internazionale il compito di assicurare l’allocazione ottimale delle risorse del pianeta, attraverso i Paesi e nei vari settori; 2) not aid, trade: i Paesi poveri non devono contare più sugli aiuti, ma devono uscire dalla povertà grazie alla loro inserimento competitivo nel commercio internazionale e nell’economia mondiale. A partire dagli anni ’90, questi principi diventano la norma della comunità mondiale, imposta dalla Banca Mondiale, dal Fmi (nella linea delle Politiche di Aggiustamento Strutturale messa in opera alla fine degli anni ’70 – inizi degli anni ’80) e codificata con la creazione nel 1994 dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. La nascita dell’Omc dà ai due principi menzionati il valore di carta fondamentale della nuova concezione della politica dello sviluppo. Lo sviluppo mondiale è identificato col commercio mondiale. Non v’è sviluppo senza commercio libero. Da qui le grandi ondate di liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione. Il cambiamento trova una chiara esplicitazione politica nel fatto che l’ambasciatore Usa alle Nazioni Unite il 23 agosto di quest’anno ha proposto di abbandonare la priorità della lotta contro la povertà e di sostituirla con la priorità della libertà mondiale del commercio. E noi cittadini dobbiamo accettare che questo sia inevitabile?

CAMBIARE LE «REGOLE DELLA CASA»

Ed ecco allora la proposta. Come il XIX secolo resterà nella storia, fra l’altro, per aver dichiarato illegale la schiavitù, così il XXI secolo dovrebbe marcare la storia dell’umanità dichiarando illegale la povertà, cioè la privazione del diritto ad una vita degna e decente sul piano umano e sociale. Come la schiavitù fu l’espressione del rigetto dell’altro, introducendo la divisione/opposizione tra cittadini e schiavi, così noi dob-biamo rigettare la negazione dell’altro fondata sulla divi-sione/opposizione tra ricchi e poveri. Dichiarare illegale la povertà non significa fare un atto di bontà, ma cambiare tante cose. Ecco perché non lo si fa. Significa mettere fuorilegge tutto ciò che viola i diritti umani e sociali, e genera fenomeni di esclusione nell’accesso ai beni e ai servizi essenziali alla vita.

Per esempio, sul piano dei comportamenti e delle pratiche sociali, si devono dichiarare illegali le azioni che colpiscono il rispetto e la promozione dei diritti umani e sociali. Come la libertà concessa alle imprese di delocalizzare le loro attività di produzione nei Paesi con salari più bassi e minore protezione sociale. Decisioni come quella presa nell’ottobre 2003 dalla Ford a Genk (Belgio) di chiudere l’unità d’assemblaggio per spostarsi in Turchia, licenziando tremila persone, dovrebbero essere rese legalmente impossibili e sottoposte a condizioni restrittive severe, accompagnate da gravi sanzioni in caso di mancato rispetto. Nel caso delle delocalizzazioni, gli uomini sono trattati come materie prime, merci (si parla infatti di “risorse umane”) utili o usa e getta secondo gli interessi privati e il livello di redditività finanziaria. La libertà d’impresa, che è considerata dai gruppi dominanti come uno dei principi fondatori della civiltà occidentale, non può prevalere sul principio del diritto delle persone alla vita e alla dignità umana. In Europa occidentale le delocalizzazioni di imprese para-gonabili a quelle di oggi non erano ammesse legalmente negli anni Cinquanta, Sessanta, se non addirittura Settanta. Questa impossibilità non ha impedito ai Paesi europei di svilupparsi; e non ha nemmeno nuociuto alla libertà delle imprese.

È impensabile eliminare la povertà attraverso riforme interne dell’economia attuale, mantenendo i suoi princìpi fondatori e le sue regole principali. Economia viene dal greco oikos nomos che significa “regole della casa” (nomos è regola, e oikos habitat, ambiente, il luogo dove si abita). Se si vuole sradicare la povertà, bisogna cambiare le “regole della casa” a tutti i livelli, dal locale al mondiale.

Le prime regole della casa da cambiare riguardano il sistema finanziario e la fiscalità. È tempo di disarmare la finanza. In un’economia moderna, il ruolo della finanza è di stabilire legami (il più possibile armoniosi ed efficaci) tra la ricchezza disponibile e la creazione di nuove ricchezze, cioè tra il risparmio e l’investimento che permette di trasformare la ricchezza prodotta e non consumata – dalle famiglie, da imprese e da altri soggetti privati e pubblici – in investimenti per la produzione, distribuzione e commercializzazione dei beni e servizi che si presume creino nuova ricchezza (l’economia reale).

Questo non succede più da una trentina d’anni. La finanza è sempre più scollegata dall’economia reale. Peggio, c’è stata un’inversione dei ruoli: l’economia reale è subordinata alle logiche finanziarie. La redditività finanziaria a breve termine è diventata l’obiettivo da raggiungere, il criterio di scelta di un investimento e il parametro di valutazione di ogni prestazione economica.

C’è un’espropriazione della ricchezza reale da parte della logica finanziaria. Ecco perché noi presentiamo diverse proposte su come promuovere un’altra economia finanziaria attraverso una nuova configurazione finanziaria e una nuova architettura fiscale. Dichiarare illegale la povertà senza cambiare le strutture che generano la povertà è un atto puramente retorico. Da Firenze chiediamo allora ai toscani di assumere l’iniziativa di far nascere una rete di nuove casse di risparmio e nuove banche cooperative la cui funzione sia quella di porre la finanza, che utilizza i risparmi della gente, al servizio degli investimenti di beni e servizi necessari al diritto a una vita decente per tutti.

Altro punto centrale è quello degli strumenti necessari per misurare se le promesse vengono mantenute. Da Firenze vorremmo lanciare l’idea della definizione e messa in opera di una Nipz: Norma Internazionale Povertà Zero. Sono state accettate tante norme internazionali, tante classifiche, per esempio la classifica della competitività dei Paesi. Perché non dovremmo darci uno strumento per misurare se una città sta andando o meno verso lo sradicamento della povertà? Ecco allora la proposta di Firenze di dotarci di strumenti attraverso i quali i cittadini possano controllare se la loro città sta procedendo verso l’eliminazione della povertà. Perché è dalle città che può venire la costruzione di un divenire sociale basato essenzialmente sul diritto alla vita per tutti.