[di Vincenzo Andraous • 12.01.02] Il carcere con i suoi molteplici contorcimenti, forse è addirittura irrapresentabile  se non lo si tocca con mano. Eppure mi piacerebbe significare un tragitto diverso, un cammino, sì, difficile, ma più vicino al reale. L'immagine che si ha di una prigione è  uno schema freddo e sintetico.

RICOSTRUIRE L’UOMO DAL DI DENTRO

Uno spazio essenziale, spogliato di ogni riferimento, ove l’anima urla davvero, e potrebbe non esser udita, perché soffocata dalle sue stesse grida, dall”imprecare, sanguinare, chiedere.  Uno spazio ove al suo interno non esiste principio né fine, né prima né dopo, alcun tempo. Né sopra né sotto, alcun spazio. Una dimensione di assoluto e di niente, di vuoto e di pieno. Un movimento presente, passato, futuro; un punto di contatto, di aggregazione, di disgregante follia. Linee e arredi spogli, poveri, insignificanti, ma a ben guardare, nel lungo tempo, divengono segni importanti; presenza viva nonostante tutto. In questa  prigione così oscura, tetra e dura, a tal punto da divenire un incubo, fino a farti ammuffire più del suo tetto-cratere corroso dal tempo: esiste un’umanità che sopravvive e infine  chiede di vivere. Questa cella, questo recinto stretto, questo carcere a distanza siderale dall’essere, difficilmente si impara ad accettarlo come intorno, a colorarlo con il lavoro, la poesia, il teatro, la meditazione, i rapporti umani finalmente nati, mantenuti e custoditi. Eppure si cresce sino a farlo diventare un tempio ove tentare di recuperare non solo attraverso la  fede che un  individuo professa, ma fors’anche e soprattutto da ciò che in ciascuno incombe; la responsabilità di ” ritrovare e ricostruire se stesso”. Ci sono momenti in cui il panico assale, paralizza, terrorizza, e non ci rendiamo conto di come abbiamo fatto diventare queste quattro mura; “un mito”, tentando di modificare questa dimensione disumanizzante in un luogo aperto ad alternative di conoscenza e di  mutamento interiore. A volte persino  la perdita di memoria é una scelta individuale per non vedere né sentire, ecco che allora aprire gli occhi e saperli poi abbassare, consapevoli dei bisogni, dei desideri e delle aspettative, diventa un gesto, un comportamento ed un’azione che superano di gran lunga lo spauracchio di quel mito costruito troppo spesso a  nostra misura. Spesso chiediamo quando giungerà il tempo per “ritenere di essere” a fronte dei chiavistelli e degli scarponi chiodati, vagando per campi minati, aggrovigliati nel filo spinato facendoci ancora più male, in una sofferenza per lo più amministrata e comunque mai consapevole. Appoggiandoci ai lampi di vita dispersi e incendiati, comprendiamo che importante “non é esserci ” ma capire “ciò che si é”, ciò che siamo e dobbiamo essere “per reinventare la nostra vita”.  Forse ciò è possibile recuperando un atteggiamento più attivo e propositivo anche dentro un carcere, con la capacità di riconoscere le proprie potenzialità, i propri interessi, per poi tradurli in un progetto di auto-realizzazione, senza per questo arenarci a fronte di situazioni che solo apparentemente paiono troppo destrutturate; per cui le viviamo sovente come potenzialmente negative. Credo sia il tempo di assumerci in prima persona le nostre responsabilità con il coraggio delle nostre azioni. Perché non esprimere la propria opinione, ma anche non averla, significa non avere consapevolezza delle proprie esigenze, non farsi portatori di un proprio progetto di vita personale. Allora rifuggire il nuovo, senza scommettersi, non impegnarsi insieme con gli altri, Operatori Penitenziari e la Società civile, non esponendosi in prima persona  per la  propria crescita personale e professionale: equivale a non vivere pienamente questa vita che ci precede e osserva, trasfigurando la quotidianità, trascendendo l’umanità stessa. Così restituendoci almeno in parte alla nostra dignità di uomini.