[di Vincenzo Andraous • 01.12.01] Leggo spesso editoriali, articoli, saggi, sulla funzione del carcere e sulla pena. Mi sembra che tutti, nei loro ruoli e competenze, parlino in fretta per non dire nulla. Ritorno ora da un convegno: tra i relatori c’era un Magistrato. Uno di quelli che non demanda ad altri, né al potere politico né a quello giudiziario, l’azione forte della parola che non consente giustificazioni.

SICUREZZA E SOLITUDINE

Egli ha esordito dicendo: “ Il discorso sulla sicurezza è diventato un’ossessione, ma non bisogna aspettarsi la soluzione dei problemi da un maggior numero di caserme ( io aggiungerei di carceri ), e sebbene sia giusta e congrua l’azione delle Forze dell’ordine, non dovremmo mai perdere di vista l’essere umano, la fragilità della vita umana “. Per trent’anni ho ascoltato il suono degli scarponi chiodati sbattuti al suolo, lo stridio delle mura protese al cielo, i silenzi assordanti mai stanchi di urlare. Per anni ho attraversato il filo spinato delle parole “ delle mie e delle tue “, così delle leggi e delle aspettative auspicate. Per troppi anni per ogni ideale ho sentito mutare pensieri, azioni e reazioni, persino le utopie sono divenute bestemmie da affossare. Quando penso al carcere, mi viene in mente quel nobile russo dell’era zarista a nome Oblomov, di cui mi ha raccontato don Franco Tassone della comunità “Casa del Giovane “: costui era una brava persona, non fece mai male ad alcuno, tanto meno lo si sentì mai lamentarsi. Semplicemente, non faceva nulla, sopravviveva a se stesso, nel più totale disconoscimento del fare, così tutto ciò che gli apparteneva decadeva per usura del tempo e nell’introvabilità di una scelta. Sebbene non contemplato in alcun testo scientifico, questo immobilismo è oggi denominato come la patologia dell’ oblomovismo. Oblomov aveva un sacco di progetti, di architetture mentali, ma morì senza avere costruito nulla, lasciando ai posteri ruderi e miserie. “Sicurezza” è l’imperativo, e a mio avviso essa non è solo un’ossessione, ha la parvenza della teoria di Thomas, cioè la profezia che si autoavvera. Sicurezza non è un ramo staccato dal vivere civile. Sicurezza sta a significare il coraggio con cui affrontare l’insicurezza, che è anche e soprattutto solitudine e mancanza di relazioni umane. Sicurezza non può essere lo strumento con cui chiedere alla giustizia penale di risanare ogni contraddizione, ogni conflitto, ogni disattesa promessa di paradiso. Infatti per ognuno di coloro che varcano la soglia di un carcere, la pena avrà un termine. Quella persona uscirà, e ancora una volta ci si aspetterà la soluzione dalla giustizia penale. Ma tutto quello che viene prima e deve venire dopo, deve riguardare un intervento sistemico generalizzato, che coinvolga l’intera società, senza che chicchessia possa ritenersi escluso dal farci i conti. Le scelte di politica criminale non possono essere dissociate da precise politiche sociali. Se ciò non è, allora equivale ad ammettere, per tecnici del diritto ed editorialisti di fama, che reprimere e rinchiudere conviene assai di più che recuperare, rieducare, risocializzare. Conviene, perché costa meno in termini finanziari, costa meno in risorse umane specializzate, costa meno in termini di ideali cristiani e democratici. Infine, comporta meno rischi da correre, è inevitabile che sia così. Tolleranza zero è il verbo per tutelare i “normali”, ma ciò vuol dire che chi ha problemi e sofferenze da contenere è accantonato. Si rimane impantanati in una storia che non insegna a pensare, ma a condannare, nel tentativo di allontanare lo spettro, sibilando a chi ha problemi di tenerli per sé. Eppure la storia è vita, e la vita non è uno slogan elettorale, ma una fotografia che non si impolvera, che ci rammenta cosa eravamo, chi siamo, e cosa vorremmo essere. Non ho usato queste parole per richiamare una visione cristiana del perdono, o la ricerca di esso a testimonianza di cosa significhi essere perdonati. Non è pietismo a buon mercato che occorre per rendere effettiva la propria rinascita, bensì una precisa volontà politica, affinché la rieducazione e la Costituzione possano finalmente estrinsecarsi attraverso passaggi e dinamiche esistenziali vere, condotte e sostenute da metodologie e atteggiamenti vivificanti, in forza di spazi di socializzazione e di figure di riferimento autorevoli, di educatori e operatori penitenziari effettivamente a stretto contatto con i detenuti, e non solo per controllare e reprimere, non solo per inculcare norme e regole nel tentativo di educare. Ma per supportare e sostenere “insieme“ la capacità di esprimere l’uomo nuovo che può nascere, e rinascere, anche in una prigione. Ciò per favorire “ insieme “ un ripensamento culturale che tolga le bende dagli occhi e allontani la convinzione che basta mettere dentro il delinquente per risolvere il problema. Un carcere a misura di uomo significa concedere la possibilità di rivedere con occhi e sguardi nuovi ciò che è stato, e soprattutto di intendere il proprio riscatto e riparazione, non come l’assunzione di un servizio statuale, che come tale rimane uno scarabocchio sulla carta, ma dovrà essere inteso come una vera e propria conquista di coscienza. Aumentare gli organici, ma quali? Solo gli Agenti di Polizia Penitenziaria? Eppure l’aspetto trattamentale serve a formare personalità mature, aiuta a trasformare irriflessivi gregari in protagonisti attivi e positivi di se stessi. Rieducare non sottende un’astrazione, neppure deve essere un traguardo per pochi privilegiati, ma una realtà costante, alimentata dalla capacità di mediare i principi del vivere civile alla quotidianità. Questo non può significare un fallimento a priori, perchè mancano le forze in campo e la credibilità di una legislazione forse non condivisa, certamente mal sopportata. Se reinserimento e rieducazione camminano sulle tracce di una osservazione concreta del detenuto, allora si può e si deve parlare di una crescita effettiva. Una crescita che non ha nulla da spartire con le false aspettative, con le pretese assurde di un auspicato cambiamento del detenuto, quando vi è assenza di strumenti e di interventi chiari e decisi. Il carcere e la pena non saranno mai di alcuna utilità, se non vi sarà una accettazione di obiettivi intermedi, personalizzati e soprattutto possibili, adeguati al tempo previsto di permanenza in una struttura carceraria. Inoltre, ma questa è davvero un’utopia irrealizzabile, ogni  progetto rieducativo individuale andrebbe collegato a un progetto di struttura, ciò per evidenziare quegli aspetti qualificanti e quello stile pretesi dalle leggi, mai del tutto compresi dalla società. Quanto fin qui espresso, potrebbe aiutare a chiarire ciò che in un carcere accade e soprattutto non accade. Sottolinearne una metodologia di lavoro e di impegno, per edificare ponti significativi di relazioni e rapporti reciprocamente rispettosi, tra detenuti, operatori, società libera. In conclusione, per quanto possa essere opinabile la mia riflessione di detenuto, ritengo non più dilazionabile l’urgenza di coniugare in modo autentico teoria e prassi, sicurezza e risocializzazione, in quanto entrambe le istanze sono elementi costitutivi della nostra collettività. Forse, oltre la condivisione dei principi morali, i quali sono logicamente immutabili, sarebbe più consono e umano condividere le modalità e le sfumature, che invece e purtroppo cambiano sovente.