[di Angelo Picariello • 10.12.01] Per don Luigi Ciotti la proposta del Papa di una giornata di digiuno per la pace è «enorme e necessaria». In direzione di un'autentica fratellanza, che è molto di più del semplice dialogo. Parla delle ferite poco raccontate di questa guerra, e del dovere di accogliere «senza riserve» i «fratelli» dell'islam, «anche se - aggiunge - non bisogna dimenticare che ci sono reti criminali che fanno riferimento all'islamismo fondamentalista di grande pericolosità e diffusione.

CIOTTI: QUEL DIGIUNO COMUNE PUNTA IN ALTO

Presenti anche in Italia, come recenti indagini stanno mettendo in evidenza. Reti e criminali rispetto a cui occorre esplicitare, a voce forse più alta e decisa di quanto non si stia facendo, una rigorosa denuncia morale, culturale e politica, e auspicare una severa e decisa repressione. Sono reti che da tempo lavorano nell’ombra, anche in città italiane, che talvolta cercano e trovano alleanze anche con gruppi della criminalità organizzata, come la ‘ndrangheta. È grazie a queste reti, e agli ambiti di omertà e protezione di cui godono in Paesi europei e occidentali, che il terrorismo stragista può più efficacemente e impunemente colpire. C’è un grosso lavoro da fare – prosegue il fondatore del Gruppo Abele – anche in materia di paradisi fiscali dove, come già per le mafie italiane e internazionali, si intrecciano e coprono a vicenda gli interessi degli assassini del terrorismo islamico, di al Qaeda in particolare, e quelli di una finanza in doppiopetto, una criminalità di «colletti bianchi» e dalle mani sporche. Talvolta sporche di sangue delle tante vittime del terrorismo, rispetto alle quali la solidarietà dell’opinione pubblica italiana e mondiale deve essere incondizionata e priva di ambiguità.
Don Ciotti, il Papa propone una giornata di digiuno per la pace il 14 dicembre. Una proposta senza precedenti e carica di significato…
Il significato è enorme, l’iniziativa inedita e necessaria. Purtroppo, senza precedenti o quasi è anche il clima di grave e crescente tensione internazionale, la capacità distruttiva e offensiva acquisita dal terrorismo integralista di radice islamica. Inedita è fors’anche la disattenzione con cui l’opinione pubblica occidentale pare seguire gli eventi bellici: quali ne siano la legittimità e le motivazioni, occorre infatti dire che di guerra si tratta. Le pagine dei giornali sono piene di cronache, mappe e descrizioni delle forze in campo o delle polemiche politiche, ma mi pare non sia sufficientemente raccontato il dramma umano, le sofferenze e le morti che la guerra, ogni guerra, comporta. E questo nonostante il coraggio, sino al sacrificio della vita, con cui i giornalisti seguono sul campo gli avvenimenti. Dopo la «guerra televisiva» del Golfo, dopo i missili intelligenti e chirurgici nell’Iraq o nei Balcani, si è fatto strada una sorta di apatia emotiva, di separazione asettica del fatto militare dalle conseguenze che comporta. Ora la proposta del Pontefice ci richiama, con lungimiranza, generosità e autorevolezza, a una riflessione morale, ma credo anche politica. In mezzo al disquisire vuoto di troppi, il Papa ci dice una cosa semplice: il dialogo tra popoli e religioni diverse costruisce e garantisce «una pace stabile, fondata sulla giustizia». Verità semplice e potente, proprio come l’amore. Che, se sapremo aprire le orecchie e i cuori, può essere capace di frenare la corsa all’odio e di interrompere la catena di montaggio della morte alla quale sembriamo rassegnati.
Che cosa la colpisce di più della proposta del Papa, l’idea in sé, la data scelta, o il momento in cui viene lanciata?
La lettera apostolica “Novo millennio ineunte” del 6 gennaio scorso, ricordando l’invito di Gesù a Simone a prendere il largo per la pesca, si apriva e chiudeva con un invito a proseguire nella speranza Duc in altum! Questa parola ci invita a fare memoria grata del passato, a vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al futuro: Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre!. Ora, mentre sul filo dell’orizzonte si scorgono non le reti dei pescatori, ma le reti del terrorismo internazionale e le sagome di portaerei e cannoniere, il primo anno del nuovo millennio sembra all’opposto chiudersi all’insegna della disperazione, della sfiducia gli uni verso gli altri, dello scontro terribile tra aree diverse e differenti riferimenti religiosi, della strage dei fratelli nel cuore degli Usa quanto nella periferia di Kabul. Fratelli e sorelle, gli uni e gli altri. Eppure, l’odierna proposta del Papa mi sembra insista sul punto: Gesù Cristo è sempre lo stesso. Sono gli uomini nel loro incurante egoismo, i governi nel loro realismo talvolta venato di cinismo, gli integralismi che soffocano nel sangue le parole della fede, siamo noi che non sappiamo riconoscerlo e accettarlo. Mi colpisce la coerenza della testimonianza e delle parole di Giovanni Paolo II nel proporci speranza. Senza speranza non c’è dialogo, senza dialogo non c’è futuro, pace stabile. Ma il futuro e la pace sono bisogni insopprimibili dell’uomo.
Più che perdersi nei dettagli, il Papa sembra invitare i credenti ad andare a fondo, alle radici della fede e all’imitazione di Cristo. Offrendo rispetto – con la data scelta – alla fede altrui come all’avvento cristiano.
Costruire la pace vuol dire scegliere la giustizia, arrendersi alla sua radicalità, riconoscersi per davvero in Gesù Cristo. Il rispetto per il Ramadan e per la fede dei seguaci di Allah è messaggio di coerenza cristiana, non di «cortesia» o semplice attenzione. L’Onu, che ha proclamato il 2001 «Anno internazionale del dialogo fra le civiltà», può anche rimanere inerte di fronte ad avvenimenti che invece vanno in direzione opposta. Ma chi crede in Cristo e nell’uomo non può esimersi dall’accettazione senza riserve di suo fratello, uomo o donna, quale che sia il colore della pelle, la lingua parlata o la religione professata. Per «vivere con passione il presente», non solo nella verticalità dei riferimenti di fede. Evitando di testimoniare per un giorno e poi magari scordarcene per i rimanenti 364. Questo vale per il Natale, come per il 14 dicembre o per il 24 gennaio, quando cristiani e musulmani pregheranno assieme ad Assisi.
Ma lei che conosce le esperienze in campo, ritiene che siano tuttora prevalenti i segni di speranza, di dialogo fra cristianesimo e islam?
Certo, quando l’odio acceca i cuori e il rumore delle bombe assorda le coscienze, si apre un fossato che può sembrare invalicabile. Però, riavvicinare i bordi della ferita diventa necessario e urgente, perché l’infezione non diventi cancrena. Nessuno, da solo, può arrivare a tanto. Ma se tutti assieme, cristiani e islamici, europei e africani, americani e asiatici, riprendiamo i piccoli passi che portano all’incontro allora il ponte apparirà come d’incanto, la ferita sarà sanata. I segni della speranza e della volontà sono ancora forse rinserrati dentro i cuori. Bisogna costruire iniziative di pace, perché gli spiragli si allarghino e i venti di guerra si smorzino, sino a spegnersi.
Qual è l’islam che lei ha incontrato e che induce a sperare?
Ha il volto del povero, del senza casa, del carcerato, del senza diritti. Non tutti se ne sono accorti, ma a margine e a causa degli attentati dell’11 settembre e del successivo clima di guerra, in tutto l’Occidente o quasi, Italia compresa, si stanno approvando leggi di emergenza. Questo non produrrà grandi difficoltà ai soldati di al Qaeda, ma ulteriore emarginazione per i tanti immigrati, molti di fede musulmana, presenti nelle nostre strade, negli anfratti della nostra società. L’eredità tremenda che gli attentati dell’11 settembre e la guerra attuale lasceranno, temo a lungo, è la paura e la diffidenza verso gli stranieri in generale e i musulmani in particolare. Di recente sono stato a un convegno nel carcere di Padova: proprio lì, nelle celle, ho trovato i segni della speranza e la voglia di dialogo tra detenuti italiani e arabi che discutono e lavorano assieme nella redazione del giornale del penitenziario. La speranza, molto spesso, è un dono che ci viene dagli ultimi, da quelli che releghiamo ai margini, per pregiudizio. Ma a noi che ci accapigliamo nei dibattiti televisivi seduti in comode poltrone, è significativo che parole di pace arrivino proprio da chi vive sulla propria pelle la tragedia dell’odio, del sangue o dell’emerginazione. Sono i segni della speranza che dobbiamo accogliere e fare nostri.