[di Enrico Fletzer • 24.06.01] Il Sudafrica in cerca della sua memoria. Un'intervista a Shaun Benton.

SUDAFRICA – L’ESPERIENZA DELLA VERITA’

In Sudafrica, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione ha concluso i suoi lavori a fine maggio, con le ultime comunicazioni del gruppo di lavoro sull’amnistia. E’ stata un’esperienza originale e difficile: il tentativo di dire la verità sulla violazione dei diritti umani che aveva coinvolto il regime dell’apartheid e gli stessi movimenti di liberazione coinvolti in una “giusta guerra”. I lavori della Truth and Reconciliation Commission erano cominciati nel dicembre del 1995, sotto la guida del reverendo Desmond Tutu. Il resoconto di quei lavori, rielaborato, è stato in seguito pubblicato (in tedesco) nel volume dal titolo Out of The Shadows (“Fuori dall’ombra”), curato dal giornalista sudafricano Shaun Benton. E’ a lui che rivolgiamo alcune domande. Cosa é successo in Sudafrica dopo il vostro lavoro? Il libro rappresenta uno sforzo collettivo di un gruppo di sei giornalisti, incaricati dalla Commissione Verità e Riconciliazione di ‘ridurre’ il rapporto finale in forma divulgativa. Io ero solo parte del gruppo guidato da Mandla Langa, membro del comitato esecutivo dell’African National Congress, un intellettuale indipendente molto autorevole che ora presiede l’Autorità Indipendente delle Comunicazioni del Sudafrica, quella che regolamenta l’intero sistema radiotelevisivo, la stampa e la telefonia cellulare. Il libro è stato pubblicato in tedesco ma non ancora in inglese perché la Commissione sta per aggiungere una appendice curata dal gruppo di lavoro sull’amnistia: sarà pronta a fine anno. In paesi come Cile o Argentina la fase post-dittatura non è stata molto soddisfacente per le vittime, in termini di verità e giustizia. Quale era lo spazio di agibilità della Commissione? Considerate in primo luogo che qui la Commissione doveva avere il potere di amnistia per i singoli soggetti. Nessun altro stato ha concesso finora un simile potere, para-giudiziario con compiti investigativi, a un organismo incaricato di scoprire la verità. Di solito, dove è stata introdotta l’amnistia per proteggere gli autori dall’azione penale circa i crimini del passato, la formula era incondizionata. La formula sudafricana ha avuto il vantaggio di far emergere resoconti dettagliati da parte dei responsabili di passati abusi e dalle istituzioni. E poi, la Commissione aveva il potere di obbligare a deporre e i poteri di perquisizione e di sequestro, che sono molto superiori a quelli di altre commissioni analoghe. Questo ha permesso un’indagine interna molto accurata. Inoltre, il lavoro della commissione sudafricana a avuto un carattere pubblico. Poche hanno avuto audizioni pubbliche delle vittime: in Uganda alla fine degli anni ’80, ad esempio, ma con pochissime audizioni. Le commissioni sulla verità latino-americane hanno ascoltato i testimoni solo in forma privata e l’informazione è stata rinviata solo ai rapporti finali. In Sudafrica, le audizioni hanno incluso aspetti dell’inchiesta non percepiti altrove: per esempio, le audizioni istituzionali e speciali hanno permesso contributi diretti di organizzazioni non governative e soggetti coinvolti in particolari campi dell’attivismo politico, con un’interazione con un pubblico non composto da vittime. La commissione sudafricana è stata la prima a creare un programma di protezione per i testimoni. Questo ha permesso che fossero rese testimonianze da persone che potevano temere di esporsi. Infine, la commissione sudafricana è stata la più grande mai esistita in termini di personale e di bilancio. Nel libro gli autori si riferiscono spesso al termine “ubuntu” (umanità) in linguaggio africano, una possibile occasione di ricostruzione di legami tra esecutori e vittime che si sono ritrovati faccia a faccia durante le audizioni. Crede che la commissione costituisca una soluzione di tipo africano, in termini pragmatici e psicologici, ai danni del regime razzista? Io non definirei la Commissione Verità e Riconciliazione una soluzione “tipicamente” africana ma piuttosto un approccio particolare a una situazione unica, quella del capitalismo razziale o del colonialismo interno. Come affermava l’ex ministro della giustizia Dullar Omar di fronte ai membri della commissione, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione era in sostanza un tentativo di “creare un fondamento morale” per la società del Sudafrica nel suo insieme, brutalizzata dalla violenza dell’apartheid, con la popolazione bianca nutrita di bugie per decenni. Ha permesso alla gente nera di farsi avanti con i loro racconti di miseria, e ai bianchi di scoprire finalmente come le altre persone avevano vissuto. Anche il processo di amnistia è stato importante, non una soluzione tipo processo di Norimberga ma una soluzione tipicamente sudafricana. La questione dell’ubuntu è importante proprio per questo. La parola è entrata nel linguaggio popolare nel periodo dei lavori della Commissione ma ha origine dalla lingua xhosa (dunque nella maggior parte delle lingue parlate in Sudafrica), dal proverbio che suona all’incirca così: “una persona è una persona per virtù di altre persone”. La Commissione è stata un tentativo di perdono e riconciliazione, un approccio africano alla riconciliazione tra i bianchi che vivono immersi in una cultura europea, e gli africani, che vivono con un senso unico di comunità che è sconosciuto in Occidente. Anche se, è triste dirlo, nonostante la maggior parte dei bianchi conosca vagamente la parola “ubuntu”, pochi comprendono cosa implica realmente questo concetto.Devo aggiungere che pochi si sono rifiutati di interagire con la Commissione per la verità e la riconciliazione – che del resto poteva costringere legalmente a comparire, dunque negarsi era un’infrazione alla legge. La Commissione ha in effetti contribuito a curare la società sudafricana – cura è in questo caso la parola chiave – ma poi ha avuto con l’African National Congress un strascico un po’ triste. La Commissione insisteva sul fatto che le violazioni dei diritti umani erano state commesse dallo stato dell’apartheid ma anche da combattenti dell’Anc. Ma questo aspetto veniva considerato troppo scorretto – forse giustamente da parte dell’Anc, per cui comunque si combatteva una “guerra giusta”. Questo ha dunque chiamato la Commissione a non pubblicare le violazioni commesse da persone dell’Anc. La situazione è stata affrontata in maniera credo poco brillante dagli ideologi dell’Anc e questo ha danneggiato notevolmente il tentativo di “creare una nuovo fondamento morale” – cosa particolarmente triste proprio perché è venuto dall’organizzazione che aveva fondato la stessa Commissione. Errori sono stati fatti, errori che ora mostrano il loro peso se si considera il tipo di stato che il Sudafrica ha riprodotto al suo interno: dove il razzismo esiste tuttora, dove i bianchi si arricchiscono più che mai sulle spalle della forza lavoro a basso costo dei neri, e dove il governo democratico sta diventando paranoico e inondato dai molti problemi come l’Aids, il crimine e il “complotto”.  Si può ancora affermare che questa esperienza sia stata veramente originale e che abbia contribuito a sanare la situazione? Puoi dirci qualcosa sull’impatto della commissione sulla vita di esecutori e vittime dell’apartheid? Tutti coloro che avevano commesso una violazione palese dei diritti umani, come torture, omicidi, durante il periodo che va dal marzo 1960 al 1994 è stato invitato a fare richiesta di amnistia. Certamente c’è chi non lo ha fatto, e costoro sono soggetti all’azione penale anche oggi. Per aver diritto all’amnistia la persona doveva aver commesso un crimine con un chiaro obiettivo politico in mente, e doveva soddisfare la commissione sull’amnistia dichiarando tutta la verità rispetto ai delitti commessi. Molti sostenitori dell’apartheid sono stati amnistiati, altri no, altri non hanno fatto domanda. Dall’altra parte molti hanno fatto domanda, ma io ho un amico che ha chiesto l’amnistia per la colpa di non aver fatto abbastanza per distruggere l’aparthied! Del resto la legge che istituisce la Commissione guardava ai crimini dello stato dell’apartheid. Quindi alla fine la Commissione ha avuto un forte impatto sui sostenitori dell’apartheid, costretti a confessare i loro crimini, e sulle vittime che hanno avuto l’opportunità di vedere in faccia i loro aguzzini: migliaia di violazioni dei diritti umani sono avvenute per decenni nelle strade, senza neppure fare notizia. E’ stato una grande momento catartico per le vittime il fatto di essere ascoltate, avere una voce. Nel contesto sudafricano, in cui si continua a dare valore alla tradizione orale, il racconto era particolarmente importante. In effetti questa è una caratteristica unica della legislazione che guidava la commissione sudafricana: riconosceva esplicitamente il potenziale curativo dei racconti. Le storie non venivano presentate come argomenti o denunce in una corte di giustizia. Piuttosto erano un’occasione di chiarezza unica nel dolore del passato del Sudafrica, spesso toccando i cuori di tutti coloro che le ascoltavano.Offrendo il luogo dove le vittime potessero raccontare le loro proprie storie nel proprio linguaggio, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione non solo contribuiva a scoprire gli abusi del passato, ma pure assisteva alla creazione di una “verità narrativa”. Così facendo cercava anche di contribuire al processo di riconciliazione, assicurando che la verità sul passato includesse la validazione di esperienze individuali soggettive di persone che erano state azzittite. La Commissione ha cercato di catturare la registrazione più ampia possibile delle percezioni delle persone, miti ed esperienze. Ha scelto di rispecchiarsi nelle parole di Antijie Krog, scrittrice e poetessa sudafricana: “la strada della …restaurazione della memoria e della umanità”. Quello che uno storico dell’Università di Oxford, Timothy Garton Ash, percepisce come la via “più promettente”: la vita che offre delle “lezioni di storie” come alternativa ai processi politici, scoprendo quello che era avvenuto e identificando le lezioni per il futuro. In questo senso la Commissione per la Verità e la Riconciliazione ha cercato di scoprire parti della memoria nazionale che erano state finora ufficialmente ignorate.