[di Marco D'Eramo • 20.07.01]  A Islamabad erano convinti di usare la guerriglia afghana. Invece i talebani si stanno "mangiando" il paese, cominciando dalla gestione del contrabbando.

IL BOOMERANG AFGHANO SUL PAKISTAN

Si chiama Provincia della Frontiera del Nord Ovest: sembra un nome del gioco Risiko. Ma è in subbuglio da quando l’uomo forte del Pakistan, il generale Pervez Musharraf, ha tentato d’imporre una “tassa sul contrabbando” che scorre a fiumi attraverso il confine con l’Afghanistan e che sposta non solo oppio, eroina e armi, ma anche più prosaici elettrodomestici, pezzi di ricambio delle auto, beni di consumo spicciolo. Già di per sé l’idea di una “tassa sul contrabbando” è assai balzana e rileva delle aporie logiche tipo “il cretese Eumenide dice che tutti i cretesi mentono”: in effetti, se lo stato pakistano non ha la forza per bloccare il contrabbando, come potrà mai avere il potere di costringere i contrabbandieri a pagare?Questa notizia mostra perciò sotto una nuova luce l’errore prospettico che spesso commettiamo quando guardiamo alle dittature militari. Formalmente infatti, dal mese scorso il generale Musharraf accumula tutte le maggiori cariche dello stato: oltre ai titoli di comandante in capo delle forze armate e di chief executive, ovvero primo ministro, si è regalato quello di presidente della repubblica, mandando a casa il fantoccio che lui stesso aveva nominato quando nell’ottobre 1999 aveva deposto il primo ministro eletto, l’uomo d’affari punjabi Nawaz Sharif. Per di più ha sciolto il parlamento e vietato ogni manifestazione politica all’aperto. A prima vista sembrerebbe la primavera del patriarca, per parafrasare un titolo di Gabriel Garcia Marquez. Il problema del Pakistan sarebbe allora il cronico strapotere dell’esercito che in realtà non è mai venuto meno dall’indipendenza, da quel fatale 14 agosto 1947. Quel giorno divenne sanguinosa realtà l’astratta “Partizione” ideata dalla potenza coloniale anglosassone tra uno stato a prevalenza hindu, l’India, e uno stato a maggioranza islamica, il Pakistan appunto (che allora comprendeva anche il Bengala orientale, poi scissosi e divenuto indipendente con il nome di Bangladesh). Rivediamo qui insomma quella storia così ben raccontata da Salman Rushdie nel romanzo La vergogna, uno dei suoi migliori e meno letti.Ma la storia degli ultimi decenni, a partire almeno dalla guerra in Afghanistan, e la cronaca di tutti i giorni ci dipingono un quadro diverso, quello di un paese dove il potere centrale è tanto più tirannico quanto più aleatorio, dove l’angheria è tanto più occhiuta e sanguinaria, quanto meno il controllo è effettivo: basti pensare che in Pakistan solo l’1 per cento della popolazione paga imposte (e pretendono di farle pagare ai contrabbandieri!). Ma c’è di più: proprio la guerra afghana costituisce un esempio clamoroso di quelle che Albert Hirschman chiama le conseguenze non volute di una decisione. Chiunque abbia detenuto il potere a Islamabad – militare o civile che fosse -ha sempre ritenuto che l’Afghanistan fosse il loro cortile di casa, una sorta di protettorato pakistano.E’ stato perciò del tutto naturale che quando hanno cominciato a finanziare, armare, istruire e organizzare la guerriglia antisovietica al di là del Khyber Pass, gli Stati uniti si siano serviti del Pakistan e dei suoi servizi segreti (Inter-Service Intelligence, Isi) come intermediari, e che a loro volta Isi e governanti paskistani abbiano usato denaro e armi della Cia per estendere la propria influenza in Afghanistan: il terreno d’incontro tra i due interessi era duplice, da un lato sconfiggere Mosca e dall’altro – soprattutto dopo il ritiro sovietico nel 1992 – impedire a Teheran e agli ayatollah d’inglobare Kabul nella propria area d’influenza.Così per tutti gli anni ’80 il flusso di rifugiati in uscita dall’Afghanistan incrociava quello di armi, istruttori e “volontari” dall’altra. Prima del 1980, proprio sotto il Khyber Pass che separa (unisce?) l’Asia centrale e il subcontinente indiano, Peshawar era un avamposto desolato, ora è una città con più di 1,5 milioni di abitanti. Quetta, la capitale della provincia del Baluchistan, è passata da 500.000 a 1,3 milioni di persone. Ma non è tanto la quantità del flusso, quanto la sua particolare natura a costituire il detonatore di una miscela esplosiva. Nella guerriglia antisovietica c’è sempre stata una componente religiosa, di risposta musulmana: e l’indottrinamento islamico era assolto dalle madrassas, dalle scuole coraniche dei rifugiati afghani in Pakistan. Oltretutto, il Pakistan degli anni ’80 era retto dal generale Zia Ul Haq che nel 1977 aveva deposto e poi impiccato Zulfikar Ali Bhutto, il padre di Benazir che aveva governato dal 1971, dopo la disastrosa sconfitta nella guerra con l’India. E fu proprio Zia Ul Haq, in cerca di una base di consenso poiché privo di legittimità, a imprimere una svolta integralista alla legislazione pakistana per assicurarsi l’appoggio della Jama’at-I-Islami (“Società islamica”).Ma fino al 1994 l’uomo di fiducia dei pakistani era un giovane moderato, Gulbuddin Hekmatyar, la cui base sul terreno era però insufficiente ad assicurargli un avvenire nazionale. Fu allora che il governo pakistano, all’epoca guidato da una premier “laica” come Benazir Bhutto e in particolare il suo ministro degli Interni, il generale in pensione Naseerulah Babar, decisero di cambiare cavallo in Afghanistan e di appoggiare i Taliban, fornendo loro cibo, vestiti, armi, combustibile e volontari provenienti dalle stesse madrassas.Queste scuole insegnavano una dottrina che assomma l’integralismo di origine saudita, il Wahabismo, forgiato nel ‘700 da Muhammad ibn Abdul Wahab in reazione al lassismo dei costumi, e invece il Deobandismo, così chiamato dal nome del villaggio Deoband, vicino Delhi, in cui si trovava un’accademia islamica che reagiva al dominio inglese con un ritorno alle tradizioni religiose. Con la nascita del Pakistan, il Deobandismo divenne ancora più radicale, soprattutto attraverso l’insegnamento di Abdul A’la Maududi secondo cui l’Islam doveva purificarsi dalla corruzione apportata dal contatto con l’Occidente: e la Jama’at-I-Islami segue proprio le dottrine di Maududi. E’ questa versione sincretica di Wahabismo e Deobandismo che professa per esempio Osama Bin Laden, che costituisce egli stesso un caso vistoso di conseguenze non volute: quest’uomo d’affari saudita fu addestrato, finanziato e sostenuto, insomma creato dalla Cia per combattere i sovietici in Afghanistan, ma oggi è divenuto il nemico numero uno degli Usa rivoltando contro di loro le tecniche e le armi che gli stessi Stati uniti gli avevano insegnato e fornito.L’appoggio di Islamabad alla guerriglia antisovietica prima e ai Taliban poi ha finito così per sortire l’effetto contrario a quello perseguito dall’Isi e dai generali pakistani: invece di pakistanizzare l’Afghanistan, ha finito per afghanizzare il Pakistan a tappe successive. Prima ha creato nel Baluchistan, nella Frontiera del Nord Ovest e nelle province (dette “agenzie”) tribali una sorta di terra di nessuno in cui in realtà vige il sistema di vita talibano. E’ qui che il nome più diffuso dato ai figli maschi è proprio Osama (come Bin Laden, considerato un eroe). E’ qui che i cartelloni ai lati delle strade invitano ad arruolarsi volontari per combattere contro gli indiani in Kashmir o contro i russi in Cecenia. E’ nell’agenzia del Waziristan che i taliban pakistani hanno distrutto videoregistratori e televisori come segni della corruzione occidentale. Tredici anni fa Parachinar, capitale dell’agenzia tribale Khurram, era un piccolo borgo di mercato, oggi ha 300.000 abitanti: il tasso di alfabetizzazione è inferiore a quello del Pakistan (33 per cento), ma quello delle donne di Parachinar si aggira intorno all’1 per cento, secondo quanto ha scritto in un reportage l’Atlantic Monthly.E la totale inefficienza del sistema educativo è il secondo fattore che sta favorendo la talibanizzazione del Pakistan: qui infatti molte scuole elementari esistono solo sulla carta, una sorta di “scuole morte” come le anime morte di Gogol. Le scuole fantasma sono solo uno dei mille rivoli che hanno alimentato la marea della corruzione pakistana: si calcola che i governi civili dei Bhutto e di Sharif abbbiano sottratto al paese 20 miliardi di dollari (quanto alla corruzione militare, essa è ancora più radicata). E’ il problema di una classe dominante che non sa essere classe dirigente perché costituita da zamindar, feudatari latifondisti, come i Bhutto, o affaristi senza scrupoli come Sharif. I soldi intascati dalla classe dominante sono stati sottratti alle scuole e agli altri servizi pubblici, ma in questo modo stanno spingendo il Pakistan verso una deriva integralista che fa paura: poiché pochissimi pakistani possono permettersi le scuole private, i più sono costretti a rivolgersi alle madrassas islamiche che svolgono in modo ironicamente paradossale un ruolo di “sussidiarietà” quale quello che l’Unione europea assegna a sé stessa. In queste madrassas entrano perciò bambini pakistani e ne escono taliban, guerriglieri islamici, fondamentalisti.L’afghanizzazione di tutta una parte del paese rischia di portare ai suoi esiti letali una spaccatura che esisteva già al tempo degli inglesi e che si è aggravata poi. Infatti il paese è diviso almeno in tre aree distinte. La prima a meridione, intorno alla foce dell’Indo, è il Sindh con Karachi, oggi una metropoli di 14 milioni di abitanti che al tempo degli inglesi era solo un piccolo avamposto sul mare arabico. Ma proprio la Partition ha riversato qui milioni di rifugiati musulmani dall’India, i cosiddetti mohajirs che negli ultgimi 20 anni hanno sviluppato un proprio movimento nazionalista che confligge con un irredentismo sindi. Dalla metà degli anni ’80 più di 5.000 persone sono state uccise negli scontri tra sindi e mohajirs.La seconda area è quella, più a nord, a est del grande fiume Indo e che comprende tutto il Punjab pakistano, con capitale Lahore, dove si respira un’aria indiana e dove ha origine la parte più colta della classe dominante. Qui l’integralismo islamico è veicolato dall’irredentismo kashmiro. Le file dei “volontari” che vanno a combattere contro l’India sui ghiacciai himalayani sono sempre più ingrossate dai taliban e dai giovani usciti dalle madrassas.La terza, sempre a nord, è quella a ovest dell’Indo dove dominano i montanari pashtun con i loro turbanti scuri o berretti piatti, ma dove vivono anche baluchi con i grandi turbanti bianchi (i baluchi sono turco-iraniani mentre i pashtun sono indo-ariani), e poi usbeki e Shia Hazaras, discendenti dei mongoli di Gengis Khan: qui si respira l’aria dell’Asia centrale, da Samarcanda all’Uzbekistan, e il mondo a così forte impronta hindu di Lahore e di Islamabad è a distanza siderale. Il problema del Pakistan è che né gli inglesi prima, né la borghesia punjabi poi sono mai riusciti ad avere un controllo effettivo a ovest dell’Indo: in definitiva, nel corso di una millenaria storia, gli invasori hanno sempre traversato il Khyber Pass da nord-ovest verso sud-est, e mai nella direzione contraria.Il Pakistan è perciò di per sé un’entità artificale, astratta, pronta a disgregarsi, a diventare una nuova Jugoslavia, per usare un’espressione dell’Atlantic Mountly. Una Jugoslavia però di 145 milioni di abitanti e dotata di armi atomiche. E per di più talibanizzata. E questo è l’esito di decenni di ferreo controllo militare, di dominio dell’esercito. Un potere che si rivela illusorio, come in un gioco di ombre, dove chi è convinto di controllare è in realtà manovrato e chi si sente burattinaio è tirato per i fili. Viene da pensare che Benito Cereno sia non solo uno straordinario personaggio dell’omonimo racconto di Herman Melville, ma sia una metafora di ogni potere forte sulla terra. Ogni mossa dei militari per fare del Pakistan una grande potenza regionale dischiude invece sempre più il baratro in cui sta precipitando. Con buona pace del generale Pervez Musharraf.