[di FILIPPO GENTILONI • 17.12.01] La sua terra natale, il Friuli, ha voluto ricordarlo, nel decennale della morte, con un progetto, "David Maria Turoldo. Una voce per il Friuli", cadenzato in due momenti: dal 4 al 7 dicembre e dal 4 al 7 febbraio. Ideato e curato dall'associazione culturale Forum di Aquileia con l'assessorato alla cultura della regione Friuli Venezia-Giulia ha riunito e riunirà le voci di artisti, di studiosi, di poeti e di uomini e donne di fede, tra i quali Michele Ranchetti, Andrea Zanzotto, Sergio Zavoli, Mario Rigoni Stern, Franco Loi, Ettore Masina, Rigoberta Mechù...

TUROLDO, IL POETA DEGLI ULTIMI

Un appuntamento prezioso per trarre un bilancio di quello che Turoldo è stato, come poeta, come testimone civile, come uomo di Chiesa e poi uomo di teatro e di cinema, e per ricordare, insieme a lui, la stagione ecclesiale che fu, dieci anni fa, di Padre Davide Maria Turoldo, come anche di Padre Balducci e di qualche altro. Una stagione, purtroppo, ormai lontana.
Vorrei qui ricordare due fra i molti aspetti per i quali Turoldo, nonostante la lontananza, ci è più vicino che mai: la condanna della guerra e quella di una metafisica che pretenda di conoscere Dio, di identificarlo, forse di possederlo (concetto, concepito). Il linguaggio è quello della poesia: ecco una caratteristica profonda di Turoldo, convinto come era che soltanto la poesia può – forse – arrivare a parlare, al di là della logica, là dove si annuncia ma non si spiega, si spera ma non si constata. Si veda, fra l’altro, il suo bellissimo Mie notti con Qohelet (Garzanti, 1992, poco prima di morire), uno dei testi biblici che, insieme a Giobbe, Turoldo ha maggiormente amato e frequentato. Ha scritto Carlo Bo: “Padre Davide ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni”.
La guerra, dunque, e la pace. Oggi, dopo le recenti tragedie del terrorismo e dell’Afghanistan rileggiamo con commozione i versi scritti nel 1982, in un altro dei momenti di scontro tragico fra Oriente e Occidente. “Primo comandamento di tutti gli eserciti:/ tu non avrai altra ragione/ al di fuori della ragione (impazzita)/ di colui che ti manda./ I soldati devono solo uccidere/ ed essere uccisi”. Sui problemi del Medio Oriente, si rileggano questi versi, scritti al tempo di una crisi analoga a quella dei nostri giorni: “Uomini, è notte / è notte per ogni cuore, / per ogni casa e paese e chiesa. / Israele -o almeno Begin – / tornasse, per una breve visita, a Mauthausen / in quel capannone delle scarpette / – un monte di scarpette e bambole e giocattoli… Poi torni pure a continuare / con la sua feroce baldanza / la concordata (oh, America) / ‘operazione pace in Galilea’”. Sembra che Turoldo non possa parlare – e riflettere – se non in poesia.
L’altro grande tema interessa direttamente il divino, la cui inafferrabilità ritorna continuamente nei suoi versi, fino alla fine. Si vedano i Canti ultimi (Garzanti 1991; ne ho una copia che Turoldo mi ha firmato, quando sono andato a trovarlo, l’ultima volta, insieme a Don Ciotti, in una casa di riposo vicino a Milano): “Oltre la foresta. / Fratello ateo, nobilmente pensoso / alla ricerca di un Dio che io non so darti, / attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo / oltre la foresta delle fedi / liberi e nudi verso / il nudo Essere / e là / dove la Parola muore / abbia fine il nostro cammino”.
Un tema, questo, che aveva attraversato tutta la sua vita e la sua poesia. Sono di pochi anni prima questi versi che il “divino” potrebbe assumere come programma: “Appena uno pensi. Di falso in falso andiamo / appena uno pensi: ecco / questo sei tu, Signore. / Nessuna definizione tu sei, / lucidità è nostra illusione; / questo predicarti, quando tu / ci frani nelle mani / come nuvola. / E non sarà soluzione / neppure la morte : / la soluzione è qui, / il silenzio”.
Questo silenzio è la preziosa eredità che Turoldo ci ha lasciato, ma è difficile ascoltarlo nel frastuono attuale di tutte le religioni.