[26.04.02] Aveva promesso che non avrebbe commentato il lavoro di Girolamo Sirchia, suo amico e successore al ministero della Sanità. Ma quando gli chiediamo un parere sull'annunciata riforma del Sistema sanitario, Umberto Veronesi, l'oncologo di fama internazionale che da ministro aveva scosso il mondo politico per i suoi modi diretti (di parlare e commentare, ma anche di fare e progettare) non ha esitazioni: «Sono sempre stato per il tempo pieno: lo ero già nel '75 come direttore dell'Istituto dei Tumori di Milano»...

VERONESI: LA SANITA’ SI ALLONTANA DALL’EUROPA

Aveva promesso che non avrebbe commentato il lavoro di Girolamo Sirchia, suo amico e successore al ministero della Sanità. Ma quando gli chiediamo un parere sull’annunciata riforma del Sistema sanitario, Umberto Veronesi, l’oncologo di fama internazionale che da ministro aveva scosso il mondo politico per i suoi modi diretti (di parlare e commentare, ma anche di fare e progettare) non ha esitazioni: «Sono sempre stato per il tempo pieno: lo ero già nel ’75 come direttore dell’Istituto dei Tumori di Milano».
Si tratta dunque di un passo indietro.
Di certo non è un passo avanti, proprio ora che l’Europa sta andando in direzione opposta. Premetto che non conosco la riforma nei dettagli, però il perno sui cui poggia – lasciare ai medici la possibilità di un doppio incarico, pubblico e privato, in ospedale e in clinica – mi lascia perplesso. Per due motivi. Il primo professionale, il secondo etico. Il primo è legato al fatto che un buon medico ospedaliero oggi lavora molto più di prima: deve saper curare, naturalmente. Ma deve anche studiare, perché la scienza cammina con passo sempre più veloce e le conoscenze si rinnovano nel giro di cinque anni. E poi deve fare ricerca, analizzare quello che ha visto in modo che la sua esperienza diventi patrimonio di tutti. Infine deve passare molto più tempo con il paziente: oggi i malati vogliono sapere quel che accadrà, vogliono essere informati, vogliono poter decidere. Dare il proprio consenso a una terapia, come si dice in termini tecnici, non vuol dire mettere una firma sotto un foglio che ti porta l’infermiera: significa prendere una decisione dopo che il tuo medico ti ha chiarito la situazione e le alternative terapeutiche. È un cambiamento importante.
E tutto questo richiede tempo.
La giornata di un medico ospedaliero, oggi, inizia alle otto del mattino e finisce quando finisce. Proprio per questo è indispensabile una struttura che lo aiuti a svolgere il proprio lavoro e, magari, che lo stimoli a fare di più. Il mestiere del medico è bello se gratificante: se lo riduciamo a un problema di «quanto guadagno in quanto tempo», lo snaturiamo.
Parlava anche di un secondo aspetto, di tipo etico-economico.
Sì, ma è strettamente legato alla situazione di oggi. Il fatto che esistano due diversi tipi di sanità, pubblica e privata, è comprensibile, accettabile e probabilmente efficace. Ma devono essere poste sullo piano, devono essere concorrenziali tra loro. L’ospedale privato e l’ospedale pubblico devono avere il loro personale, a tempo pieno in entrambi i casi. Esistono anche differenze tra le due realtà: in uno ci possono essere lunghe liste di attesa, nell’altro brevissime; in uno ti potresti trovare in corsia con quattro o anche otto letti e un bagno in comune, nell’altro puoi avere la stanza singola con la tua tv e il tuo telefono. Se la situazione è questa, è chiaro che il medico che ha un doppio incarico, nel privato e nel pubblico, finisce per selezionare i propri pazienti e separarli. Lo fa in buona fede, non ho dubbi, ma lo fa. I pazienti più ricchi vanno a pagamento, quelli che non possono permettersi la clinica o che richiedono cure lunghe e complesse – che inevitabilmente peseranno sulla struttura che li assisterà – restano in ospedale. In questo modo le case di cura guadagnano, gli ospedali pubblici pagano; le prime producono utili, i secondi solo costi. Così facendo, però, va a finire che lo stesso medico, quando è in ospedale, anziché fermarsi con i pazienti o i colleghi, guarda l’orologio e corre in clinica.
Il medico, insomma, deve fare una scelta: o di qua o di là.
Il sistema sanitario sta profondamente cambiando: l’ospedale del futuro, quello di cui si discute in tutti i Paesi d’Europa, sarà profondamente scientifico, tecnologico, impegnato nella ricerca, nello studio, nell’educazione, oltre che nella prevenzione e nella terapia. Il progetto, a livello europeo, è proprio quello di chiudere due terzi degli ospedali e di creare una grande rete di centri diagnostici sul territorio, perché la diagnosi deve essere capillarizzata: quando hai un dubbio devi poter trovare un centro vicino a casa tua, non a cinquanta chilometri. E gli ospedali, ridotti come numero, devono avere invece una grande qualità di lavoro.
Qualche anno fa lei disse che battere il cancro era solo una questione di tempo, di qualche decennio.
Lo ribadisco, non saprei dire se si tratterà di trenta o cinquant’anni, ma l’ordine di grandezza è quello. Il fatto è che rispetto a prima abbiamo tra le mani conoscenze che prima non erano disponibili. Prendiamo il Progetto Genoma, cioè la decifrazione del nostro codice genetico: rappresenta una svolta epocale, ma è stata completata solo nel 2001. Negli ultimi anni, poi, la ricerca ha preso un passo tale che, facendo un esercizio matematico, cioè valutando le scoperte degli ultimi dieci anni e il progressivo calo di mortalità possiamo fare delle previsioni. E dire che, continuando così, fra qualche decennio saremo in grado di dare la spallata finale a questa malattia che un tempo si pensava imbattibile.
Lei parla di nuove strade, quale la più promettente?
Aver iniziato a capire i tanti passaggi, i diversi gradini che portano alla formazione di una cellula tumorale. Si tratta di un modo nuovo di guardare il cancro e, di conseguenza, di impostarne le strategie di cura e prevenzione. La formazione di un tumore può essere divisa in due grandi fasi: una invisibile e una evidente. Noi oggi interveniamo solo sulla seconda, quando il tumore si è ormai formato. Eppure esiste un lungo periodo, che chiamo la «lunga notte del tumore», in cui hanno luogo quei processi che portano alla trasformazione di una cellula sana in una cellula tumorale. Il fatto sorprendente è che si tratta di processi lunghi, lunghissimi: se io oggi venissi a contatto con una sostanza cancerogena, anche potente, l’eventuale formazione di un tumore non potrebbe che avvenire fra quindici, vent’anni. Ebbene, la nuova strategia di ricerca è capire cosa succede durante la notte del tumore per intervenire nei processi di trasformazione e bloccarli. Un’altra strada, fondamentale, è quella di individuare i tumori il prima possibile, quando sono appena usciti dalla lunga notte, all’alba diciamo. E questo sia perché, essendo piccoli, sono più facili da distruggere o da rimuovere, sia perché in quello stadio è meno probabile che abbiano invaso altri organi. Questo a sua volta vuol dire una diagnosi precoce, anzi precocissima: cosa possibile con lo sviluppo di nuove tecnologie, ma anche con un sistema sanitario efficiente, perché richiede una buona preparazione del medico e una maggiore attenzione del cittadino che deve sottoporsi con regolarità a esami di controllo.
Poi c’è la prevenzione dove però non si capisce se è più quel che è stato fatto o quel che resta da fare. Ad ascoltare voi medici sembra non sia mai abbastanza, forse anche perché non sempre quel che dite viene poi realmente ascoltato. Lei ne sa qualcosa per quel che riguarda il fumo, quando da ministro tentò inutilmente di convincere i suoi colleghi a varare una legge contro il tabagismo. Sembra che tra mondo della scienza e mondo della politica non ci sia una grande sintonia, non crede?
Il problema è che manca la volontà di fare. In Finlandia, parlamento e governo hanno deciso di dichiarare guerra alle sigarette: nel giro di pochi anni la gente ha quasi completamente smesso di fumare e la mortalità per tumore al polmone in quel paese è crollata a valori minimi. Per farlo hanno realizzato una intensa campagna di informazione ed educazione. Con i mezzi di comunicazione di oggi, non c’è nulla che non possa essere trasmesso con efficacia alla popolazione. La pubblicità riesce a fare tutto. Occorrono degli investimenti, certo, ma soprattutto la volontà. Se lo Stato volesse davvero far smettere la gente di fumare dovrebbe impegnare le reti televisive, comprare spazi pubblicitari, martellare tutto l’anno su questo argomento portando immagini, testimonianze, documenti.
Un problema di comunicazione, dunque, più che di proibizione.
La proibizione non deve esistere. Non possiamo impedire alla gente di fumare: la mia legge riguardava la difesa dei non fumatori, faccenda completamente diversa. Un fumatore inquina l’aria, su questo non ci sono dubbi. E se è giusto perseguire un’industria che inquina, lo stesso devo essere fatto con una persona che fuma in un luogo pubblico. La mia era una legge semplice e lineare, fatta di poche righe: sei a casa tua, nessuno ti proibisce di accenderti una sigaretta, ma se sei al cinema, a scuola, in un ristorante non puoi fumare. La protezione del non fumatore è un dovere civile.
La lotta al fumo di sigaretta, cioè la dissuasione a scopo preventivo è invece un’altra questione. E non può che essere realizzata per via persuasiva. Sono antiproibizionista per quel che riguarda la droga, figuriamoci se non lo sono per le sigarette.
Eppure il suo disegno di legge si arenò in Parlamento.
Lo confesso, fu una delusione. Ma devo ammettere che quando entrai al governo e vidi che tutti o quasi erano fumatori incalliti, capii che sarebbe stata una missione difficile. Perché so, per esperienza, che i fumatori sono un po’ fatalisti. E in genere poco decisi a prendere decisioni drastiche riguardo alle loro abitudini. Come in effetti accadde. Eppure è un atteggiamento che come medico, e come ministro della sanità, non potevo e non posso accettare.
Un altro atteggiamento, inaccettabile, è quello di cambiare la realtà dei fatti. Un luogo comune, molto diffuso, è quello di affermare che l’inquinamento atmosferico, specie in città, è tale che una sigaretta in più o in meno non fa alcuna differenza. È un’affermazione sbagliata e priva di senso: l’inquinamento cittadino provoca bronchiti, allergie, ma la possibilità che provochi tumore al polmone è minima rispetto a quella del fumo di sigaretta. Pochi lo sanno, ma nell’arco alpino, ad esempio in Friuli, dove si fuma molto, l’incidenza del cancro al polmone è superiore a quella che si registra in città come Milano o Genova. Impegnarsi per un ambiente più pulito è giusto, ma questo non deve distoglierci dalla lotta contro i tumori.
La quale richiede grossi impegni di ricerca, ma anche investimenti: argomento che in Italia non è certo tra i più seguiti.
Il governo ha di recente annunciato che si pone l’obbiettivo di dedicare alla ricerca, a tutta la ricerca, l’1% del Pil. Lo ritengo insufficiente: ci vorrebbe almeno il doppio, tenendo presente che altri paesi spendono il 3 o addirittura il 4% del Pil. Lo stesso vale per le ricerche di oncologia, dove in Italia si spendono ogni anno circa 300 miliardi, di cui il quaranta per cento da privati: anche qui, l’ideale sarebbe arrivare al doppio.
Che in Italia si spenda poco per la ricerca è noto da tempo.
Certo, però adesso siamo entrati in una fase in cui ogni aspetto della nostra vita è profondamente legato alla scienza. Il futuro, lo dicono tutti, è fatto di ricerca. La novità, oggi, è che il futuro, questo futuro, è già cominciato.


(fonte: 13.04.2002 L’Unità)