«Abbattere tutti i muri che ancora dividono i popoli e le razze, i ricchi dai poveri». Così, da Berlino, Barack Obama, candidato presidente degli Stati Uniti e simbolo meticcio della contemporaneità. E noi? Noi siamo impegnati a ergere il patetico muro di Lampedusa. Naturalmente è la solita bugia, che il territorio nazionale sia minacciato da un’invasione di “clandestini” tale da richiedere la proclamazione dello “stato d’emergenza“. Al contrario, una vera e pesante emergenza scatterebbe nella malaugurata ipotesi che i lavoratori immigrati privi di permesso di soggiorno abbandonassero, da mattina a sera, le nostre aziende e le nostre famiglie.
Commissari etnici, sindaci sceriffo, censimento dei nomadi, impronte digitali obbligatorie per i minori rom, ordinanze contro la ricerca di cibo e vestiti nei cassonetti: logica vorrebbe che, come antidoto ai flussi migratori incontrollati, venissero promosse nuove procedure d’immigrazione regolare. Ma non è questo che si vuole. Gli stranieri continueranno ad arrivare con permessi turistici per essere assunti in nero. Resteranno le estenuanti pratiche di rinnovo del permesso di soggiorno, e nel frattempo anche i regolari che perdono il lavoro verranno lasciati precipitare nel gorgo dell’illegalità.
Il fatto è che nel paese dell’economia sommersa il sopruso e l’ingiustizia convengono a molti. È un paese, il nostro, che ha proceduto per lunghi mesi (prima, durante e dopo le elezioni, con voce quasi corale), a imporre la percezione di una società preda della criminalità straniera, alimentando la leggenda degli immigrati furbi, titolari di privilegi a scapito della popolazione locale, e coltivando il comune senso reazionario con uno scopo preciso: programmare una guerra tra poveri, qualora il calo dei redditi avesse gravemente acuito il disagio sociale.
Seminare oggi il falso allarme per il “persistente ed eccezionale afflusso di extracomunitari” ed annunciare il potenziamento delle “attività di contrasto” sa di subdolo e di insidioso: è la codificazione della disuguaglianza anche in materia di diritti fondamentali dell’uomo, fra cittadini e non cittadini, fra appartenenti al popolo ed estranei necessari al popolo, purché rassegnati alla condizione di paria. Ma l’intimidazione degli stranieri irregolari già ne condiziona la vita, all’insegna della paura: varie associazioni di medici, per esempio, hanno denunciato un calo drastico, nelle strutture sanitarie, dell’utenza di immigrati bisognosi di cura. Dobbiamo considerarlo un risparmio o una vergogna?
Sicurezza? Attraverso l’integrazione
Quando c’è, è giusto dichiarare l’emergenza. Alla Caritas non manca di certo, al riguardo, una ricca esperienza in Italia e nel mondo. Ma bisogna anche dire che non si vive di sola emergenza. Nel caso dell’immigrazione nessuno nega che siamo di fronte a un fenomeno di portata storica, nel senso che esso ha assunto proporzioni quantitative che incidono qualitativamente sulle società di partenza e di arrivo. Ma ciò avviene ormai da alcuni decenni. Se la discussione si incentra su un singolo provvedimento, si possono enunciare verità parziali, in un senso o nell’altro. È vero, ad esempio, che l’esigenza di sicurezza è reale ed è avvertita dalla popolazione, ma è anche vero che non si può commisurare tutto all’istanza securitaria. Indubbiamente alcune comunità di immigrati presentano specifici problemi, quanto ad integrazione e rispetto della legalità. Ma non si possono ignorare problemi altrettanto seri, come la tutela dei diritti degli immigrati.
Oggi sono proprio gli orientamenti generali a correre il rischio di essere oscurati dalla logica emergenziale, mentre alcune questioni di fondo attendono di essere definite in un quadro limpido di solidarietà e legalità. In primo luogo, il modello di integrazione che si vuole realizzare ha bisogno di parole chiare, di programmi espliciti, nei quali devono trovare un posto centrale i diritti degli immigrati, a cominciare da quelli fondamentali al lavoro, alla scuola, all’uguaglianza tra uomo e donna. Da questo punto di vista è preoccupante il fatto che le comunità interessate, e le organizzazioni impegnate sul fronte dell’immigrazione, non vengano coinvolte nell’elaborazione delle linee di intervento del governo. E si va facendo altrettanto preoccupante il silenzio che è sceso in sede ministeriale sulla “Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione“, che era stata costruita insieme agli immigrati suscitando tante speranze e aspettative.
La definizione di linee di indirizzo, concordate con le rappresentanze sociali, è base essenziale di una politica che intenda perseguire la sicurezza attraverso l’integrazione, non l’integrazione attraverso la sicurezza. Vi sono ragioni che legittimano qualche disorientamento, ed è giusto chiedere alla politica l’indicazione di un progetto fondato sull’equilibrio tra diritti e doveri, tra sicurezza e integrazione, che produca provvedimenti idonei ad affrontare i diversi profili di una questione che chiama in causa valori profondi del nostro modo d’essere e di rapportarci agli altri.
La violenza dietro il “fastidio”
La battaglia messa in atto in alcune città d’Italia – per sanzionare l’elemosina, l’accattonaggio, il lavaggio dei vetri – è stata accolta da una sorta di consenso silenzioso, come se fosse diventato all’improvviso normale interdire ai poveri città che passano per essere un patrimonio dell’umanità, mentre lo sono solo di quella parte che se lo può permettere. Tutto ciò, nella piena soddisfazione di amministratori, turisti, albergatori, commercianti, cittadini benpensanti.
Non stupisce che si tenti di nascondere agli occhi del paese realtà e vicende di vita che non piacciono, ma che continuano a esistere. E che per farlo si ricorra a complesse architetture legislative e amministrative, dalla grande spettacolarità e dalla dubbia tenuta sui tempi medi e lunghi. Ma a colpire di più è stato il carosello di cittadini interpellati dalle tv, che senza imbarazzo parevano unanimi nel bollare i mendicanti come un “fastidio”, quasi fosse un termine neutrale o del galateo, e non contenesse invece una sottile, perversa e inconfessabile carica di violenza. Non foss’altro perché sotto quegli stracci di vestiti ci sono persone che valgono più dei marciapiedi o del giusto decoro di una città.
Intristisce, poi, che il mondo politico, per mitigare le frustrazioni di un popolo che vede riflesse nei poveri le proprie paure, predichi il federalismo e pratichi un’autosufficienza che, combinandosi alla crisi economica, ci rende tutti più sbrigativi, superficiali e spietati. Stupisce anche l’enfasi con cui tali decisioni sono cucinate e servite agli italiani dai telegiornali. Senza esitazioni, senza incertezze, senza posare lo sguardo sulla sofferenza di chi tende la mano ma evita gli sguardi dei passanti. Forse è tempo di ricordare, che rovistare in un cassonetto o nell’immondizia non è un divertimento per nessuno. Tantomeno per un povero.
Vittorio Nozza
(Direttore Caritas Italiana)
Fonte: ITALIA CARITAS (Il mensile della Caritas Italiana) – settembre 2008