SE VINCE OBAMA (di Raniero La Valle)


Se Obama vince, non è perché ha dalla sua il passato, come McCain ha quello di “eroe” per aver combattuto nella guerra persa del Vietnam; non è perché l’uragano che le sette cristiane avevano invocato contro di lui si è abbattuto invece sulla convenzione repubblicana (ma Dio non era nel vento); non è perché a un certo punto per avere i voti della classe media e della comunità ebraica americana ha dato una sterzata a destra alla sua campagna elettorale e a Gerusalemme ha promesso a Israele ciò che non poteva promettere; se Obama vince è perché una fase si è chiusa e la nuova fase non si può affrontare con le idee e con le armi di prima.

La crisi del Caucaso, più ancora che le sconfitte in Iraq e in Afghanistan, ha mostrato l’esaurimento della orgogliosa pretesa della neo-destra americana di fare suo il mondo dopo la rimozione del muro di Berlino. In effetti qui le condizioni erano le più favorevoli per gli Stati Uniti: la Georgia, uscita dall’URSS e ormai entrata nella sfera americana, e anzi ansiosa di entrare nella NATO; l’egemonia atlantica ormai imperante in tutta l’area est-europea di antica obbedienza sovietica; la Polonia pronta ad accogliere lo scudo spaziale e ogni altra arma “difensiva” antirussa; la Russia ormai ufficialmente declassata, dagli analisti americani, a potenza “regionale”. E se gli Stati Uniti avevano fatto una guerra per il Kosovo, ben poteva la Georgia fare una guerra per l’Ossezia. Ma è bastato che la Russia dicesse di no, che rivendicasse il mandato dell’ONU come legittimazione della sua presenza militare nell’Ossezia del Sud, e che muovesse le sue forze armate, ed ecco che tutto l’Occidente, in preda alla massima confusione, non ha potuto accusare la Russia che di «una reazione sproporzionata», ancorché legittima; e la Georgia ha perso, e l’America con lei.

La lezione è che la forza non basta più, che nuovi equilibri si vanno creando, e che nessuno può fare quello che vuole. L’era di Bush finisce con la sua «strategia della sicurezza nazionale americana», la quale consisteva nel fatto che gli Stati Uniti controllassero il mondo intero, e che mai alcun’altra potenza potesse non solo superare, ma neanche eguagliare la potenza americana; l’equazione era che la sicurezza degli Stati Uniti stava nella insicurezza degli altri, e nell’impedire che qualsiasi nuova forma di equilibrio potesse crearsi dopo quello tramontato dei due blocchi. Questo sogno, concepito dopo la scudisciata delle Torri Gemelle, è svanito.

Ma ciò si accompagna alla caduta di un altro sogno coltivato a partire dall’89 dalle potenze vincitrici della guerra fredda: e cioè che la globalizzazione, come realizzazione del capitalismo puro, sarebbe stata la forma definitiva del mondo, ormai pacificato sotto la dittatura universale del danaro. I costi umani, politici, economici e sociali di questo assetto finale della storia erano considerati danni collaterali, e in sé trascurabili, purché non arrivassero alle prime pagine.

Anche questa costruzione è franata; ma non perché ci sia stata una rivincita degli sconfitti, ma perché questo sistema non è atto a reggere la terra, e la terra esplode sotto le sue mani. Non è solo “il dio mercato” che produce danni irreparabili, come ormai ammette anche Tremonti, improbabile neofita della lotta contro un “fanatico” liberismo economico; ma è tutto il sistema della appropriazione, della produzione, del consumo e della trasformazione che è giunto a sbattere contro un muro invalicabile, che è quello dei limiti di un mondo finito e di una creatura che crea ma nei gemiti di una realtà essa stessa creata. Per rendersi conto della gravità della crisi sistemica che si è prodotta e della portata dei “mali del mondo” basta leggere un agile libro appena uscito di una ambientalista di fama, Carla Ravaioli, dal titolo «Ambiente pace, una sola rivoluzione» (edizioni Punto Rosso, 12 euro). Si può discutere la proposta di cominciare un rientro nei limiti, col disarmo dell’intera Unione europea, ma tutta l’analisi è ineccepibile e altrettanto la tesi dell’urgenza di una drastica inversione di tendenza; altrimenti il sistema per la sua stessa logica sarebbe tentato di salvarsi giocando l’ultima carta delle disuguaglianze, dell’esclusione e della guerra.

Questa riforma non può farsi per via politica senza una profonda revisione delle culture che hanno presidiato fin qui lo sviluppo del mondo. Se vince Obama un mutamento politico e culturale potrebbe cominciare in America; e allora toccherebbe a noi, forze umane e progressiste di ogni Paese, fare da sponda a questa possibile rivoluzione americana. Perché se cambia la politica dell’America, cambia il mondo.

Raniero La Valle


Articolo scritto per la rubrica «Resistenza e pace» del n.18 del 15.09.2008 del quindicinale di Assisi, Rocca.