[Amedeo Tosi 27.04.05] Nei «Balcani d’Africa» del Burundi, paese in cui le due maggiori componenti etniche, i Tutsi e gli Hutu, sono in guerra dal 1993 (almeno 300.000 morti ed un milione di sfollati), dove le armi Made in Italy non smettono ancora oggi di sparare, si spera…

CHI HA DETTO CHE LA SPERANZA NON FA NOTIZIA?

Per chi scrive sui giornali sarebbe una scelta da emarginare. Da mettere ai margini della propria professione. Pensare e scrivere di una regione del continente africano come quella dei Grandi Laghi, poi… Di un luogo dove non sta succedendo nulla di rilevante sul versante economico. Dove non arriva nemmeno la corrente elettrica che può accendere i riflettori dell’interesse, la «luce» delle regole di «notiziabilità» o delle «3 s» (sesso, soldi, sangue) che dovrebbero dettare le priorità delle cose da raccontare al pubblico pagante…
 
Del resto c’è un però. Anzi c’è una quarta «s», quella di «Speranza», forse troppo importante e rivoluzionaria per fare notizia. Adatta però ad un pubblico non pagante come quello di GRILLOnews. Così vi racconto…
 
Vi racconto che nei «Balcani d’Africa» del Burundi, paese in cui le due maggiori componenti etniche, i Tutsi e gli Hutu, sono in guerra dal 1993 (almeno 300.000 morti ed un milione di sfollati), dove le armi Made in Italy non smettono ancora oggi di sparare, si spera: in un quartiere a Nord della capitale Bujumbura, ad esempio, è terminata qualche giorno fa «la prima parte dei tornei sportivi a cui hanno partecipato 24 comunità religiose, cattoliche, protestanti e musulmane dei Quartieri Nord. E il 3 maggio ci sarà la finale!» annunciano con gioia gli amici missionari saveriani del Centre Jeunes Kamenge, che -per la cronaca- nel 2002 hanno ricevuto un riconoscimento internazionale per le loro attività, il premio Nobel alternativo.
 
Sì, c’è chi spara e c’è chi spera, dentro alla non-notizia che «in questi giorni continuano le attività dei nove gruppi di alfabetizzazione nei Quartieri, tutti i pomeriggi della settimana». Che, anche grazie alla Cooperazione Italiana, si sono ultimate «una serie di cento case ricostruite, venti per Quartiere». Che «proseguono le attività di educazione civica sulle elezioni, anche mediante l’utilizzo dell’animazione teatrale e dei giochi di socializzazione, per le scuole secondarie». E non si arresta «il lavoro di coordinamento dei 24 club “Stop Aids”, in vista anche del 29 aprile, giornata nazionale di “lotta contro il l’Aids”, che sarà animata con attività sportive e testimonianze». Questi e tantissimi altri interventi «con i 23.800 giovani iscritti al Centro Kamenge. E con i 200.000 abitanti dei Quartieri Nord, per dirci ancora una volta che siamo vivi e pieni di speranza in un paese, il Burundi, che sta lavorando per entrare definitivamente nella democrazia». (am.t.)
 
 
RWANDA.
UN LIBRO E UN FILM DOPO ANNI DI INDIFFERENZA
 
[di M.G. 26.04.05] Scrivere un romanzo o fare un film per descrivere un genocidio sono idee che non preludono certo ad un facile successo, soprattutto se non c’è ancora un numero sufficiente di anni che garantisca quel distacco emotivo necessario per non avere l’aria di narrare un elenco di fatti che, per quanto eclatanti, non riescono a coinvolgere appieno.
 
Poteva accadere per i fatti del Rwanda, avvenuti dieci anni fa, nell’indifferenza di un mondo che non voleva credere all’esplosione di una tale violenza. La notizia di un milione di vittime, riportata dai media in un lampo, come tale è scomparsa tra tante altre tragedie che non commuovono più nessun pubblico, assuefatto com’è alla barbarie da non credere che sia vera perché, tanto, è lontana al di là di quello schermo.
 
Oggi sono proprio un libro e un film a riproporre quella tragedia, e le parole addirittura più delle immagini rimangono vive per giorni nella mente del lettore, spingendolo a vedere anche “Hotel Rwanda” per riconoscere luoghi e protagonisti di quei fatti.

Il libro è “Una domenica in piscina a Kigali” (Ed. Feltrinelli), del giornalista canadese Gil Courtemanche, esperto di politica internazionale che ha vissuto nella regione dei Grandi Laghi quando sembrava che l’aids fosse l’unica piaga e le rivalse tribali solo un brutto ricordo del passato. E l’aids è il pretesto del protagonista per entrare nelle viscere del Paese, per fare un documentario dedicato alla malattia, e scoprire poi, con un crescendo di tensione, che il cancro è la rivalità tra la maggioranza hutu e la minoranza tutsi. Il tutto narrato attraverso gli occhi disincantati di un occidentale, che ben riconoscono l’indifferenza del suo mondo attraverso l’impotenza delle forze internazionali che, invece di difendere i diritti umani, servono solo a rimpatriare i bianchi dall’inferno della carneficina.

Quegli stessi bianchi che prendono i cocktail domenicali sul bordo della piscina dell’hotel des Mille-Collines con i generali corrotti del regime. La storia del libro e quella del film si incrociano con lo scopo comune di offrire una testimonianza non banale attraverso la voce delle vittime di quei giorni del 1994.