[di Nando dalla Chiesa • 27.04.05] Qui c’è una lesione dell’onore dei nostri caduti, del senso di lealtà dovuto a chi (a torto o a ragione) ti affianca in battaglia. Quello che sta accadendo oggi esprime un disprezzo che va oltre la subalternità e la rende impossibile, intollerabile...

CALIPARI. LA VERITÀ NON È UNA MEDAGLIA

Vatti a fidare degli amici. Soprattutto di quelli più stretti, quelli che hanno scritto con te un pezzo della tua storia. Come gli amici americani, per esempio. Che stanno cucinando per l’Italia e gli italiani un boccone indigeribile anche per gli stomaci più forti. Prima ci hanno ammazzato di fuoco amico (involontariamente, si presume) uno dei migliori funzionari dello Stato. E con lui hanno quasi fatto la pelle a una giornalista appena uscita viva da un sequestro di persona proprio grazie a quel valoroso funzionario. Poi sono entrati a gamba tesa sullo scenario della sparatoria ripulendo da par loro (e non solo loro) il terreno da prove, indizi ed eventuali corpi di reato. Poi ci hanno chiesto scusa per lo spiacevole incidente. Quindi hanno stabilito che toccasse a una commissione bilaterale appurare i fatti. Infine hanno deciso da soli come i fatti sono andati: colpa del funzionario, della giornalista e dell’altro uomo dei servizi alla guida dell’auto che portava l’ostaggio liberato all’aeroporto.

E’ vero che il vecchio adagio recita “dagli amici mi guardi Iddio”. Ma qui, non sembri banale, si è passata davvero ogni misura. Scopriamo che la nostra amicizia assomiglia sempre di più a quegli speciali sentimenti di sudditanza che i disgraziati coltivano verso i potenti. Pronti, questi ultimi, a prodigar buffetti finché si sentono omaggiati e riveriti. E altrettanto pronti a rovesciarti il tavolo addosso con un calcio il giorno che dovessi accampare presso di loro un minimo diritto. Il caso Calipari supera in gravità (se possibile, visto il numero dei morti) il caso del Cermis. Supera il caso delle due ragazze americane rimpatriate senza colpo ferire dopo che con un incendio colposo avevano seminato un po’ di vittime in un hotel romano. Supera gli arresti di terroristi (o presunti tali) eseguiti in totale autonomia sul suolo nazionale.

Basta riannodare gli eventi. L’Italia alleata preziosa di Bush ha portato migliaia dei suoi uomini in armi nel lontano Iraq. Per aiutare (questa è comunque la versione del governo) un paese democratico, e al quale siamo debitori della nostra democrazia, a contrastare più efficacemente la minaccia del terrorismo internazionale. Per aiutarlo a difendersi meglio da nuove carneficine dopo quella dell’11 settembre. Alcune decine di italiani in armi sono anche morti nel garantire questo sostegno, questa “coalizione dei volonterosi” utilissima per rintuzzare l’idea di Stati Uniti vogliosi di entrare in guerra per propri interessi commerciali e di dominio. E’ stata, quella italiana, una scelta politicamente sofferta; causa per il governo – così ci si dice oggi – di una caduta di consensi elettorali tra le generazioni più giovani. Così come sofferta è stata la sequenza di quel maledetto pomeriggio del venerdì 4 marzo.

Anzitutto per Calipari. Portare a compimento la liberazione di una giornalista per la quale si era mobilitato tutto il paese, essere a poche centinaia di metri dall’aeroporto, e poi incontrare la morte incredibile e beffarda come il cavaliere di Samarcanda. Ma anche per noi, qui in Italia. Fare la sconvolgente esperienza mentale di sapere, mentre si festeggia la liberazione di Giuliana Sgrena, che solo per un soffio tutto l’equipaggio italiano non è rimasto sotto il fuoco degli alleati. E subito dopo sentir fioccare le versioni impudenti sull’eccesso di velocità, sulla mancata risposta all’alt, perfino i dubbi sulla professionalità di Nicola Calipari, nel frattempo assurto a eroe nazionale in quell’inquadratura da brivido di Ciampi appoggiato a mani alte sulla bara tricolore.

Stavolta non c’è l’incoscienza protetta e incoraggiata di un aviatore che considera l’Italia un flipper con il quale giocare da cialtrone. Non c’è l’incoscienza protetta e incoraggiata di due giovani turiste. Non c’è nemmeno la mancanza di ogni rispetto del diritto internazionale che porta a compiere operazioni di polizia sul nostro territorio. Qui c’è una lesione della bandiera, dell’onore dei nostri caduti, del senso di lealtà dovuto a chi (a torto o a ragione) ti affianca in combattimento.

Quello che è avvenuto con il Cermis, per capirsi, configurava un rapporto tra padrone e subalterno. Ma quello che è accaduto e sta accadendo oggi esprime un disprezzo che va oltre la subalternità e la rende impossibile, intollerabile. Perché nella storia della letteratura anche i servi, alcune figure di servi in particolare, hanno comunque una loro dignità, una loro ammirevole grandezza. Grande, stupenda,  è Euriclea, la nutrice di Ulisse. Ammirevole è la balia di Giulietta. Sono figure che esprimono una tradizione, che riflettono storie, relazioni sociali e senso comune autentici. Per questo nei tempi moderni l’espressione di “servitore” (e altrove di “civil servant”) riferita al rapporto con lo Stato, non è mai stata ragione di umiliazione e ha rappresentato anzi ragione onorifica, tanto che assai propriamente è stata riservata allo stesso Calipari.

Oggi è il momento del salto di confine. Dopo il responso degli “amici americani” secondo cui nessuno tra i nostri alleati ha sbagliato in quel pomeriggio di fuoco e di sangue, il servo, se tace, perde ogni sua dignità. Il suo silenzio diventa quello di Fantozzi, moderna negazione della dignità servile. Costretto a ogni umiliazione per non perdere il suo posto nel consesso aziendale, poiché da quel posto, anziché dal proprio “io”, egli trae il senso illusorio della sua qualità umana.

Sbalordire per le versioni dei fatti che ci vengono propinate, in un crescendo di spartiti che alla fine saranno un guazzabuglio di contraddizioni e di inverosimiglianze, non ha molto senso. Purtroppo, come già con le morti avvenute nelle nostre contrade ai tempi dei questori e dei procuratori che arrivavano diritti dal fascismo, vedremo e ascolteremo di tutto. Già l’immagine del soldato che alza la torcia e spara, con le mani impegnate contemporaneamente nelle due funzioni, e che sparando davanti colpisce di dietro e invia pallottole in direzioni contrastanti, si presterebbe all’ennesima opera buffa di un Fo o di un Benigni.

Ma c’è ancora il ricordo caldo di un uomo e del suo coraggio, la foto di gruppo di una famiglia a cui si è promesso giustizia, che non consentono né frizzi né opere buffe. Non consentono nemmeno -questo lo si deve dire- che da parte di chi difende l’ingiustizia e la menzogna, magari per ammansire truppe stanche di una missione che doveva essere una passeggiata e le ha invece logorate e colpite in centinaia di vite, non consentono, dicevamo, che venga consegnata una medaglia d’oro firmata Cia alla memoria del funzionario ucciso. La verità non si compra né con i commerci né con le medaglie.

Ne abbiamo abbastanza, nella tradizione italiana, di corone spedite ai funerali dai mandanti dei delitti, per ingoiare la medaglia di chi certifica che la vittima non ha saputo fare il suo mestiere. Per questo invochiamo oggi la dignità dei servi capaci di guardare fieramente negli occhi il loro padrone, quando capiscono che per loro non c’è più rispetto. Sono momenti speciali. Sono i momenti in cui anche chi non è stato tenero con Craxi rivà orgoglioso con la mente a Sigonella. Sono i momenti in cui chi ama le lezioni di libertà che l’America e la sua cultura hanno pur dato al mondo, vede i soldati dello sbarco in Normandia sempre più lontani, sempre più scoloriti. Purtroppo per loro, purtroppo per noi.
 
Nando dalla Chiesa


Fonte: l’Unità, mercoledì 27 aprile 2005