[di Francesco Silvestri (Narcomafie) • 12.01.02] Intervista a Leoluca Orlando, docente universitario , fondatore della "Rete", intelligenza inquieta e paradossale, Leoluca Orlando ha vissuto come sindaco di Palermo gli anni bui delle stragi di mafia e poi, da protagonista, quelli della "primavera di Palermo". Stagione certo straordinaria, di grande impegno civile e morale, forse un po’ mitizzata, certo passata. Perché chi oggi si mette a parlare di mafia rischia di incontrare sguardi annoiati o quell’ascolto rassegnato e paziente riservato a chi rincorre fantasmi privati, a chi torna ossessivamente sullo stesso argomento.

COSA NOSTRA SEMPRE PIU’ «NOSTRA»

Onorevole Orlando, perché accade questo, perché oggi è sempre più difficile parlare di mafia?
Io ho sempre sostenuto che esistono due modelli di mafia. Un modello che vorrei tanto chiamare americano, ma purtroppo devo chiamare “siculo-americano”. È il modello della mafia monogenerazionale — dove il capomafia lavora perché il figlio faccia non il mafioso ma l’avvocato, il magistrato, il medico, come prova il fatto che le cinque famiglie mafiose di New York hanno nomi siculo-americani ma nessuna di queste ha come capo uno che abbia quel cognome. E un modello che possiamo chiamare “siciliano-siciliano”: il figlio del boss mafioso fa il boss e non c’è una grande mobilità nei ruoli dei capi mafia. Ecco, questo modello, cui si è ispirata la mafia corleonese, è stato sostanzialmente sconfitto: ha giocato fino in fondo le sue carte con le stragi di Falcone e Borsellino e con gli attentati a Firenze, Roma e Milano e poi, nel ’93, ha chiuso la sua parabola. E questo certamente perché c’è stata una reazione delle persone oneste e delle istituzioni, ma anche perché c’è stata una reazione della mafia siculo-americana che aveva aiutato Buscetta. Non è un caso che Buscetta fosse un siculo-americano e non un corleonese.

Lei dice che Cosa Nostra americana ha spinto per un cambiamento della mafia siciliana?
Certo, perché il comportamento di questi “selvaggi” rovinava il mercato, rovinava l’immagine. La mafia siculo-americana era collegata al nostro traffico di droga, al nostro traffico di armi, aveva gli stessi interessi della mafia che stava in Sicilia. È chiaro che un mafioso americano poteva fare in modo che il figlio diventasse un politico o un avvocato a condizione che la mafia non creasse allarme sociale. E in America la mafia non creava allarme sociale, di regola non uccideva magistrati, poliziotti e politici. Ma quando Cosa Nostra cominciò a uccidere e a fare stragi in Italia, per non rischiare di essere identificata con quel tipo di mafia la mafia siculo-americana studiò il modo di eliminarla.

Veramente questo non è mai venuto fuori dal punto di vista processuale… Ma guardiamo l’origine dei pentiti…
Il vero primo duro colpo ai corleonesi, in chiave collaborativa, venne dai mafiosi siculo-americani — per intenderci dai gruppi che si riconoscevano in Bontade, Inzerillo, Badalamenti. I figli di Bontade, piuttosto che di Inzerillo, frequentavano le scuole migliori di Palermo: era un’operazione di riciclaggio rispetto al passato mafioso della famiglia. Con il ’93, con l’assassinio di padre Puglisi e l’arresto di Riina, la strategia stragista viene di fatto abbandonata. E a quel punto qualcuno dice che la mafia non c’è più. In realtà stiamo tornando ad un modello che è quello pre-corleonese, ovviamente adeguato ai nuovi tempi.

E in cosa consiste questo adeguamento?
Bisogna rendersi conto che il panorama è cambiato: non soltanto per i colpi dati alla mafia, o perché ormai lo stragismo non era più utile rispetto agli interessi internazionali della mafia, ma anche per il fatto che progressivamente cala l’importanza della droga negli interessi di Cosa Nostra. Quindici anni fa era il business più significativo, oggi di droga non se ne parla quasi più: è sempre un affare molto importante, però il gruppo criminale che controlla il traffico di droga negli Stati Uniti d’America non sembra essere più quello siciliano o colombiano, ma quello messicano. C’è in parte uno spostamento di potere, in parte un cambiamento di interessi del potere. La mafia che controllava il traffico di stupefacenti controlla a mio avviso altri affari e lascia ai messicani il compito di occuparsi della droga, che è diventata un business considerato minore di fronte ad altri affari.

Che genere di affari?
C’è il riciclaggio del denaro sporco, che richiede intelligence e preparazione tecnica. Ci sono le ecomafie. C’è il filone che riguarda l’utilizzo di risorse finanziarie legate ad interventi non collegati a guerre, cioè i grandi flussi finanziari che sostengono i paesi in via di sviluppo.

Sta parlando del meccanismo della globalizzazione? Qual è l’elemento di novità nell’economia mondiale?
È che per la prima volta non c’è più la coincidenza tra il luogo della produzione e il luogo del comando. Quel modello è finito. Il luogo del comando può essere indifferentemente la “finanziarizzazione” o la telematizzazione. Se poi le due cose coincidono, si ha il massimo risultato: questo vale per l’economia legale, perché non dobbiamo pensare che valga anche per l’economia illegale? La mia opinione è che si stia operando un passaggio indolore dalla mafia corleonese a quella siculo-americana. Furono 48, credo, i familiari di Buscetta uccisi dai corleonesi mentre Buscetta parlava. Oggi noi abbiamo 1100 pentiti, ma da anni nessuno dei loro parenti viene non dico ucciso ma nemmeno schiaffeggiato!

E questo cosa sta a significare?
Che in questa operazione c’è una regia. E la regia è l’eliminazione di tutte le tossine della mafia corleonese, perché questo potrà consentire a soggetti in giacca e cravatta, che parlano le lingue e che fanno affari, di comandare. Il passaggio dalla mafia vecchia alla nuova mafia nuova non è però ancora concluso: pur nell’attuale predominio del modello siculo-americano, permangono soggetti mafiosi di stampo corleonese.
Ma il tradizionale controllo del territorio che fine farà? La mafia continua ancora a controllarlo in due modi, uno antico e uno moderno. Quello antico è il controllo fisico, ma accanto a questo c’è anche il controllo immateriale, cioè finanziario. Immaginiamo che la mafia abbia una mano, un cuore e un cervello: noi finora abbiamo dato un colpo fortissimo alla mano, l’aspetto militare, abbiamo fortemente ridotto le funzioni cerebrali — non si può più parlare di egemonia culturale della mafia, di capacità della mafia di entrare nella testa della gente — ma al cuore, alla finanza, abbiamo fatto appena il solletico.
L’esistenza di un cuore finanziario della mafia è un grave pericolo per la democrazia… Peggiore delle stragi… Se noi continuiamo a inseguire una mafia che non c’è più, il boss — che sa che quella mafia non c’è più — ci guarda e si mette a ridere. È vero che la nostra strategia ha costretto la mafia a cambiare tattica, quindi da quel punto di vista abbiamo vinto, Palermo ha smesso di essere una città con 240 morti ammazzati all’anno. Ma l’assenza di omicidi significa anche che la mafia continua attraverso le reti finanziare a condizionare la comunità, perché ha scoperto che il controllo immateriale di una realtà è molto più efficace di un controllo materiale.
Però la mafia esiste e vive ancora nel territorio… Certo, e il fatto che i mafiosi non si uccidano più tra di loro è segno che c’è un’intesa. Oggi non c’è una guerra di mafia. Ma ho la sensazione che se ne potrebbe scatenare una nuova.

A Palermo o in generale?
In Sicilia. Lo storico Nicola Tranfaglia parla di una nuova convivenza con la mafia. Lei pensa che in futuro sarà più difficile isolare la mafia? Convivere con chi fa affari è molto più facile che con chi fa stragi. Lo puoi fare anche senza accorgertene. È un problema culturale ed è per questo motivo ho creato una Fondazione (The Sicilian Renaissance Institute, ndr.) che gira per il mondo partendo dall’esperienza di Palermo. Il tema di fondo è: riusciamo a inserire nell’agenda internazionale il rapporto fra democrazia e legalità? Siamo capaci di fare entrare nell’agenda delle Nazioni Unite il tema che non vi può essere democrazia senza pace e legalità? La pace non la si deve affidare solo ai soldati e la legalità solo ai poliziotti. Ho scoperto nella nostra esperienza i tratti di un progetto che può essere utile anche fuori dalla realtà siciliana, con riferimento a temi che non sono soltanto la mafia.
Ma c’è una teoria forte della legalità? Esiste un’idea di governo partendo da questi temi? C’è la legalità, la cultura della legalità e l’economia della legalità. Che differenza c’è tra legalità e cultura della legalità? Parlavo tempo fa con un mio amico straniero, un imprenditore, che mi diceva che pagare le tasse era per lui un diritto. Lì ho capito che differenza c’è tra legalità e cultura della legalità. La legalità è l’idea che pagare le tasse è un dovere, la cultura della legalità è l’idea che pagare le tasse è un diritto. Lui mi diceva: “Se io non pago regolarmente le tasse nessuno crederà ai miei progetti, se poi il mio interlocutore economico pensa che accanto al bilancio ufficiale io ne abbia anche uno ufficioso e falso, avrà sempre il dubbio che ne abbia un terzo, un quarto, un quinto”. La legalità deve quindi diventare cultura della legalità, la cultura della legalità deve diventare economia della legalità, perché se la gente non si convince che rispettando la legge si fanno pure gli affari prima o poi farà la rapina. E questo vale anche per la pace, per l’ambiente… Noi per la prima volta a Palermo abbiamo organizzato contro la mafia la riapertura di un teatro. Mi si dirà: cosa c’entra? C’entra perché l’affermazione della democrazia è come un carro con due ruote: una ruota è quella della repressione, la ruota della magistratura e delle forze dell’ordine, l’altra è quella della promozione sociale, culturale ed economica. Se una ruota si ferma, il carro non va avanti. Se hai soltanto la repressione, il carro gira su se stesso e la gente si convince che si stava meglio quando si stava peggio. Se hai soltanto la promozione culturale, rischi di organizzare un concerto in onore dei boss mafiosi. La magia della primavera di Palermo consisteva nel fatto che riuscivamo a fare andare le due ruote alla stessa velocità.
Vorrei leggerle questa affermazione dello storico Salvatore Lupo: “Non è vero che l’opinione pubblica sostiene la mafia, nemmeno adesso che in Sicilia si è espressa con un voto così clamoroso, l’opinione pubblica non ritiene piuttosto che la discriminante mafia-antimafia sia così importante da farla schierare su questo problema”. Io sono assolutamente d’accordo con Salvatore Lupo e considero questa la nuova vera insidia della mafia. Il problema è appunto che la mafia è presente con procedure, meccanismi e tecniche che non sono più terroristici, ma finanziari e culturali. Perciò l’affermazione di Lupo fotografa una realtà indubitabile nel comune sentire della gente: il tema della lotta alla mafia non è più prioritario perché la mia vicina di casa non legge più le notizie di morti ammazzati e quindi si preoccupa piuttosto della disoccupazione, della mancanza d’acqua, del traffico.

E la politica deve adeguarsi a questo dato di fatto?
Certo che no. La politica deve cambiare il suo modo di combattere la mafia: non più frontalmente, come faceva prima, ma prendendone il posto. Nei confronti della mafia stragista era facile dire di essere contro Riina, Brusca, Bagarella, e anche la massaia era contro. Oggi non basta essere contro la mafia, perché se tu continui a dire che sei contro la mafia e non riesci a prenderne il posto — e quest’affermazione mi ha creato molte incomprensioni — non riuscirai mai a sconfiggerla. Oggi il posto della mafia non è più nelle montagne o nei quartieri di periferia, ma nei centri finanziari e culturali. Se noi vogliamo veramente combattere la mafia dobbiamo evitare che la mafia che ha smesso di sparare si confonda con noi. E allora il tema diventa far esistere l’altra ruota del carro. In passato abbiamo avuto una società civile che tifava e un apparato repressivo che colpiva.

Ma oggi come ci si fa a entusiasmare per la lotta contro i mafiosi finanziari?
La gente non si mobilita. La mafia antica, quella che sparava, era più pericolosa ma anche più facile da combattere; la mafia nuova è meno pericolosa, ma più difficile da combattere. E allora bisogna elaborare una strategia finanziaria e culturale.
Però il politico deve dare risposte ai bisogni della gente. Anche alla massaia che dieci anni fa tifava per i magistrati… Io ho fatto una campagna elettorale nella quale ho mostrato il volto di una Sicilia adeguata ai tempi. Ho fatto la scelta di chi dice: io vi presento quello che penso debba essere la Sicilia, e ho preso oltre 300mila voti in più rispetto alla coalizione che mi sosteneva. Detto questo, noi dobbiamo insistere nel portare avanti un modello culturale alternativo. Io lavoro perché ci sia in Sicilia un’egemonia culturale della legalità. Perché diversamente l’egemonia culturale sarà quella della mafia…

In Sicilia chi sono gli alleati di Leoluca Orlando in questo progetto?
Sono quelle 300mila persone fuori dal mio schieramento politico. E i partiti della coalizione? Ci sono anche loro, certo. Ma il fatto che io abbia avuto questo risultato è un aspetto nuovo. Per la prima volta 300mila siciliani hanno appoggiato un progetto difforme dalle loro appartenenze politiche. Allora questo sta a significare che c’è in atto un processo di fondazione di una nuova cultura della legalità, che non può più essere quella costruita sul tifo da stadio. L’ho vissuta quella stagione, ma c’è un tempo per ogni cosa. Se tornassi indietro rifarei esattamente quello che ho fatto, ma se oggi faccio quello che facevo dieci anni fa la gente mi prendebbe in giro.

È una strategia che riesce realmente a passare in Sicilia?
Non bisogna cercare scorciatoie, non bisogna avere fretta. È un cammino in cui ci vuole pazienza. Il tema della lotta alla mafia e all’illegalità è sottoposto a un processo severo di revisione dei modelli di riferimento culturali, perché altrimenti rischia di essere una collezione di alcune straordinarie testimonianze individuali. Ma queste testimonianze, se non si collegano ad una elaborazione culturale che si faccia teoria e progetto, restano isolate. Quest’estate il ministro delle Infrastrutture Lunardi ha detto cose inquietanti sul rapporto tra economia e legalità… Guardi che noi dobbiamo ringraziare il ministro Lunardi perché la sua affermazione ha provocato una reazione culturale. Ha posto un tema vero. Lunardi ha detto in sostanza che ci sono nel nostro Paese persone che considerano normale che si conviva con la mafia. Non sono mafiosi — non vorrei essere frainteso — non sono neppure complici della mafia, ma alla fine si girano dall’altra parte. Allora il punto è: vogliamo consegnare queste persone alla mafia? Oppure dobbiamo cercare di convincerle che non è possibile convivere con la mafia, che non è conveniente? Perché se oggi passa l’idea della convivenza con la mafia, tutti gli operatori economici di alcune regioni del nostro Paese, e la Sicilia fra queste, si vedranno costretti ad iscriversi ad una cosca mafiosa. E se sbagliano cosca perdono l’affare e la vita. E allora bisogna dire che il tema della convivenza con la mafia è inaccettabile non soltanto eticamente ma anche economicamente, perché la convivenza con la mafia non conviene. Se cerchiamo di convincere le persone che convivere con la mafia è soltanto peccato, allora la gente dice: faccio peccato, ma intanto faccio l’affare! Bisogna invece far capire che con la mafia non si fanno affari. Fare uno sforzo in questo senso però non è facile, perché chi lo fa sembra quasi che voglia rinunciare al passato.
Difatti tutto questo sembra più che altro frutto d’iniziative individuali. Non sembra esserci ancora un soggetto politico che se ne faccia portatore… Io sono fierissimo degli anni vissuti a Palermo. Abbiamo dimostrato che è possibile contrastare la barbarie e l’inciviltà della mafia senza diventare barbari e incivili, senza la pena di morte, senza la legge dell’occhio per occhio dente per dente, senza applicare meccanismi d’intolleranza, senza portare all’altare della dea sicurezza i valori in cui crediamo. Però mi rendo conto che un messaggio di questo genere viene recepito molto più facilmente all’estero che in Italia, dove, nonostante i miei sforzi, vengo identificato in uno schieramento politico. Non è un caso che in America le cose che vado facendo sono sostenute dai democratici come dai repubblicani. Perché là viene percepita non l’apparteneneza politica ma l’impianto culturale. Con la mia Fondazione sto cercando di trasformare un’esperienza politica non in un’altra esperienza politica, ma in un progetto. Siamo nella fase in cui si sta costruendo un nuovo modello di cultura della legalità, cercando di coniugare il rapporto fra democrazia e legalità col terzo millennio. Negli ultimi anni del secondo millennio il rapporto fra democrazia e legalità era prevalentemente repressivo, fece eccezione la primavera di Palermo che affiancò alla repressione la proposta culturale. Quell’esperienza oggi è un modello per andare avanti.

E, in questo discorso, che fine fa il concetto di società civile?
La società civile in passato era costituita sostanzialmente da soggetti organizzati. Oggi o la società civile diventa un modo di sentire — con e oltre i soggetti organizzati — o altrimenti si perde, perché la mafia, dal momento in cui ha deciso di abbandonare la strategia stragista, ha scelto di diventare società “civile” diffusa. O noi riusciamo a trasformare queste cose in un comune sentire oppure tutto diventa difficile. Non è un caso che il luogo strategico di questa battaglia sia la scuola. La scuola è un’organizzazione non organizzata. È l’elemento di maggiore speranza e confronto. Noi abbiamo decine di migliaia di persone che oggi non hanno memoria, neanche delle stragi dei primi anni Novanta. Se noi vogliamo onorare la memoria delle persone che sono morte in una fase terribile della nostra storia, dobbiamo riuscire a coniugare al terzo millennio gli stessi loro valori.

Cosa bisogna fare allora: testimoniare?
La testimonianza è fondamentale: maledetto il popolo che non ha testimoni, maledetto il popolo che ha bisogno di eroi. La testimonianza però non deve essere l’unico modo. Noi dobbiamo insistere, dobbiamo essere capaci di essere noi, e non i mafiosi, egemoni nei processi finanziari. Noi, e non i mafiosi, egemoni nei processi culturali.

E chi è questo noi collettivo?
Tutti quelli che ci stanno.