[di Vincenzo Andraous • 13.02.02] Ho letto i risultati del primo rapporto sulle condizioni di detenzione tratte dal volume “ Il carcere trasparente “ redatto da Antigone. Ho l’impressione che continuiamo a riparlarci addosso, in una specie di  giro vizioso, forse irreparabilmente precostituito, come a voler significare: parliamone spesso, ma parliamone in fretta proprio per non dire niente.

DIO E’ MORTO IN UNA CELLA

Leggo attentamente queste righe, e seppure mi assalgono fremiti antichi, ho netta la sensazione di stare a vedere e peggio sentire sequenze di un film già visto tante e troppe volte. Come se i miei ricordi, fossero improvvisamente fotografie impolverate dagli acciacchi del tempo…che non scorre, ma rimane lì, fermo, a rammentare. Da 28 anni sono in carcere, da qualcuno svolgo attività di tutor nelle comunità “Casa del Giovane” di don Franco Tassone a Pavia, e ancora dimoro in un carcere, per cui ne conosco gli anfratti, le anse, i cambiamenti intercorsi. Mi viene da dire che il carcere non è quello disegnato nei films, nei romanzi, nei fumetti, non è quello sovente strumentalizzato dal sistema mediatico. Il carcere con i suoi molteplici contorcimenti, forse è addirittura irrappresentabile  se non lo si tocca con mano. Eppure mi piacerebbe significare un tragitto diverso, un cammino, sì, difficile, ma più vicino al reale. L’immagine che si ha di una prigione è  uno schema freddo e sintetico. Uno spazio essenziale, spogliato di ogni riferimento, ove l’anima urla davvero, e potrebbe non esser udita, perché soffocata dalle sue stesse grida, dall”imprecare, sanguinare, chiedere. Uno spazio ove al suo interno non esiste principio né fine, né prima né dopo, alcun tempo. Né sopra né sotto, alcuno spazio. Una dimensione di assoluto e di niente, di vuoto e di pieno. Un movimento presente, passato, futuro; un punto di contatto, di aggregazione, di disgregante follia. Linee e arredi spogli, poveri, insignificanti, ma a ben guardare, nel lungo tempo, divengono segni importanti: presenza viva nonostante tutto. In questa  prigione così oscura, tetra e dura, tanto da divenire un incubo, fino a farti ammuffire più del suo tetto-cratere corroso dal tempo: esiste un’umanità che sopravvive e infine  chiede di vivere.  Allora non solo il sistema mediatico dovrebbe prendere in esame questa istanza che non ha nulla di pietistico o vittimistico, affinché divenga una precisa istanza di interesse collettivo, perché nessuno si  ritenga autorizzato a non farci i conti. Questa cella, questo recinto stretto, questo carcere a distanza siderale dall’essere, difficilmente si impara ad accettarlo come intorno, a colorarlo con il lavoro, la poesia, il teatro, la meditazione, i rapporti umani finalmente nati, mantenuti e custoditi. Eppure per crescere, per non piegarsi a quell’infantilizzazione galoppante, a quella desocializzazione che rincorre e rincula a ogni  standard di prisonizzazione, esso deve diventare uno spazio, si, di privazione della libertà, ma anche e soprattutto un micro gruppo facente parte il macro gruppo ove tentare di recuperare non solo attraverso l’afflizione, ma soprattutto da ciò che in ciascuno incombe: la responsabilità di ” ritrovare e ricostruire se stesso”. Appoggiandoci ai lampi di vita dispersi e incendiati, comprendiamo che importante “non é esserci ” ma capire “ciò che si é”, ciò che siamo e dobbiamo essere,” per reinventare la nostra vita”.  Forse ciò è possibile recuperando un atteggiamento più attivo e propositivo anche dentro un carcere, con la capacità di riconoscere le proprie potenzialità, i propri interessi, per poi tradurli in un progetto di auto-realizzazione, senza per questo arenarci a fronte di situazioni che solo apparentemente paiono troppo destrutturate, per cui le viviamo sovente come potenzialmente negative. Credo sia il tempo di assumerci in prima persona le nostre responsabilità, con il coraggio delle nostre azioni. Perché non esprimere la propria opinione, ma anche non averla, significa non avere consapevolezza delle proprie esigenze, non farsi portatori di un proprio progetto di vita personale. Allora rifuggire il nuovo, senza scommettersi, non impegnarsi insieme con gli altri, Operatori Penitenziari e la Società civile, non esponendosi in prima persona  per la  propria crescita personale e professionale: equivale a non vivere pienamente questa vita che ci precede e osserva, trasfigurando la quotidianità, trascendendo l’umanità stessa.  Tutto ciò perché?Per restituirci almeno in parte alla nostra dignità di uomini. Mi convinco sempre di più che una persona detenuta debba fare ricorso alle proprie energie interiori per riuscire a vincersi e migliorarsi, ma ciò “ nonostante il carcere“, diventando a nostra volta soggetti sociali attivi e non solamente “larve”, né tanto meno rassegnandoci a essere “oggetti”. Questa riflessione parte dalla constatazione che, nonostante la mia condizione di prigioniero, mi ritengo comunque parte di un insieme, in quanto: sono, vivo, miglioro, perché appunto parte di una ampia collettività. Senza ciò io stesso non sarei più. In questo tempo d’impegno nella comunità “Casa del Giovane”, ho capito che è proprio dall’esperienza che nasce la necessità di cercare ripetutamente dei chiarimenti.  La  spinta a mettersi in discussione, a rimettersi in gioco, per conoscere di più noi stessi e gli altri, viene soprattutto dagli incontri e dal confronto che ne deriva. Affrontare il cambiamento è una necessità, come affrontarlo è una sfida per l’Amministrazione Penitenziaria, per i detenuti, per l’intera società. Se il carcere permarrà o scivolerà in un sistema chiuso, esso gestirà i problemi del cambiamento e dell’aggiornamento tentando di mantenere lo status quo ripiegandosi su stesso; se invece diverrà  un sistema di detenzione aperto agli ideali nuovi e possibili, allora diverrà anche un luogo di reale testimonianza”. Il rapporto di Antigone sul carcere, traccia i nuovi confini del disagio sociale, com’è cambiata la tipologia criminale, la stessa umanità ristretta. Ribadisce i tre grandi problemi endemici all’Organizzazione Penitenziaria: il sovraffollamento, la carenza di personale e di fondi. Irrisolti, ma fondamentali quesiti che comportano la frammentazione del panorama penitenziario, fagocitando la divisione in pseudo feudi delle carceri italiane. Il grande problema  sul versante carcerario consiste nel favorire e costruire una cultura nuova più consona allo spirito delle leggi e delle norme,  una cultura nuova che permetta anche a chi vive a contatto diretto e quotidiano con il recluso, un modo nuovo di concepire e mettere in pratica la propria professionalità e le proprie responsabilità. Mi chiedo infatti se un carcere che risponde a condizioni strettamente custodialistiche e prisonizzanti, non sia nell’effetto antitetico allo spirito e alle attese delle leggi stesse. Altrettanto bene so che è innanzitutto al detenuto, che viene chiesto doverosamente di essere all’altezza del servizio offerto ( e sarebbe bene intenderlo come una conquista di coscienza e non solo come una mera possibilità statuale ), ma questa prigione costantemente  costretta a vivere del suo, a rigenerarsi di una speranza pressochè spenta, rafforza la separazione tra  il carcere e la  società. EPPURE IL CARCERE E’ SOCIETA’. Il rapporto di Antigone è un’istantanea che non consente giustificazioni, tanto meno pause liberatorie, è un’apnea. E comunque io mi sento parte della società, da essa provengo e ad essa intendo tornare, a fronte di decenni di carcere già scontato. Per cui la società non può chiamarsi fuori, tanto meno considerare questo perimetro un agglomerato o un corpo morto a lei estraneo, questo perché lei stessa con i suoi squilibri, le sue ingiustizie e i disvalori, ne partorisce le trasgressioni e le conseguenti devianze che comportano quel sovraffollamento che tutti conosciamo. Perciò se io ritorno nella società non può esserci nessuna separatezza, estraneità, affinché la società stessa si senta esentata dal dover fare i conti con questa realtà. Allora come può una società non sentirsi chiamata in causa, non avere la consapevolezza che è suo preciso interesse occuparsi di ciò che avviene o non avviene dentro un carcere? Perché  volenti o non volenti, esiste un dopo e questo dopo positivo dipende da un durante solidale costruttivo e non indifferente. Forse è giunta l’ora di intendere il carcere  in controtendenza rispetto alla tendenza sociale, che offra pure il fianco alla critica, ma opponga la sua credibilità e capacità di rinnovamento interloquendo con le giovani generazioni, e inducendo un ripensamento culturale, in modo che ciascuno non si senta esente dal fornire il proprio contributo. Qualcuno insiste a disperare sul futuro incerto e obliquo? Il carcere viva allora nel presente, e lo faccia attimo dopo attimo, costruendo  un mondo carcerario più vivibile, a misura d’uomo, nella consapevolezza che ciò è compito di tutti, nessuno escluso. Credo che occorra fare bene il proprio mestiere di uomo, sia esso di uomo libero che di uomo ristretto per gli errori commessi, agendo con più ragionevolezza possibile. Perché esercitare il mestiere di uomo, significa agire in modo da rispettare in noi e negli altri la dignità insita all’essere umano. Qualunque sia il fondamento che si vuole assegnare alla morale della  pena, qualunque sia il peccato di  ognuno, un punto è condivisibile e irrinunciabile: non ci sono contributi “unici” da dare, né costruzioni di prigioni utopistiche, non c’è neppure da inventare una nuova tavola di valori. C’è solamente bisogno di riempire di contenuti adeguati quel che viene chiamato il bene e il giusto. Attraverso le generazioni in essa ospitate, e in quelle che all’esterno osservano, anch’esse imparando che l’unica solidarietà vera è quella che suscita attenzione verso chi è provato e sofferente, perché quasi sempre “il nostro lato migliore non dipende da noi, ma è affidato all’iniziativa di uno sconosciuto che viene incontro all’altro”.