[a cura di  LUCIANO VETTORE • Editoriale "Dialogo sui farmaci" n. 5 • Settembre-Ottobre 2001] Si potrebbe maliziosamente pensare che la definizione data nel 1948 dall’OMS della salute come "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale" abbia avuto grande fortuna perché ha fatto coincidere la salute con un’aspirazione universale illusoria, ma anche frustrante perché di essa non si riesce mai a godere pienamente e, in ogni caso, si vive nel timore di perderla.

VIVERE DA AMMALATI PER MORIRE IN SALUTE

Di questa frustrazione si è impossessato con scaltrezza il mondo moderno occidentale, quel mondo che ha assunto il denaro come misura assoluta del valore delle cose; se n’è impossessato e si è impegnato con successo a monetizzare anche la salute e a trasformare in “bene di consumo” tutto ciò che la dovrebbe ridonare o conservare. Dove c’è un bene da consumare, là non può mancare la pubblicità, nata e cresciuta per vendere e per far comprare, per convincere della bontà del prodotto e per indurne il bisogno; e per fare questo tutti gli strumenti di persuasione – manifesta od occulta – sono buoni: si utilizzano, opportunamente imbellettate, le clamorose scoperte della ricerca scientifica e il conseguente “delirio di onnipotenza” della biomedicina, che ha radicato l’illusione di un rimedio per ogni sofferenza, anzi di un rimedio medico anche per ogni disagio esistenziale non ovviabile con gli strumenti della medicina; tanto che, quando la medicina scientifica fallisce, pur di non accettare la precarietà dell’esistenza umana si cerca il rimedio nell’altra medicina, quella che evoca miracoli e magie, ma che sa usare anche a proprio vantaggio l’arma della parola, spesso più efficace della chimica. Sola e nuda t’en vai filosofia ….., spogliata di ogni saggio consiglio di fronte al salutismo imperante, che i mass media spargono a piene mani, spesso usando – ahimé – testimonial professionali cointeressati al profitto (qualsiasi allusione alle trasmissioni televisive e alle rubriche di medicina sui giornali d’informazione è assolutamente non casuale!). È grave ma non è serio, ed è comprensibile anche se non è giustificabile che proprio i medici siano potenti induttori di nuovi bisogni sanitari: se la salute è un prodotto da vendere, come si può pretendere che chi lo distribuisce non reclamizzi i propri servigi ?!? E invece no! In un mondo in cui si tende a medicalizzare ogni evento della vita, perché i prodotti che hanno a che fare con la medicina promettono una sicura riuscita commerciale, proprio i medici, o almeno una grossa parte di essi – quelli cioè che vogliono essere medici delle persone prima che delle malattie – sono forse gli unici soggetti che possono parlare ai propri “pazienti” (parola ancora preferibile ad “assistiti” o peggio a “clienti”) – in modo credibile, anche se faticoso – di salute anziché di malattie, di fisiologia anziché di patologia, di stili di vita anziché di mode salutiste. È tempo d’iniziare una campagna di controinformazione, di educazione vera alla salute dei cittadini prima ancora che di educazione terapeutica dei pazienti; è tempo di rendere in prima persona responsabili i cittadini della loro salute in una gestione autonoma e demedicalizzata delle piccole magagne quotidiane che non sono malattie, ma solo prove del nostro essere vivi. È illusorio pensare di contenere la spesa sanitaria fino a quando i manager della salute e i produttori di tecnologie diagnostiche e terapeutiche ad alto costo continueranno la loro alleanza nel promuovere nuovi bisogni sanitari politicamente rimunerativi e pretenderanno il risparmio solo dagli attori della tappa finale del processo. Allora, sono le cure che hanno prima di tutto bisogno di essere curate per essere dimensionate alla funzione propria non solo di curare, ma anche del prendersi cura; una vera educazione alla salute avrà così il duplice effetto di riallocare le risorse finanziarie su obiettivi di valore non meramente mercenario, cioè di realizzare risparmi veri e non solo improbabili cosmesi di bilancio; infine, non sarebbe casuale se con ciò si raggiungesse anche l’obiettivo, solo apparentemente “secondario”, di ridurre le molte cause iatrogeniche di malattia.