[di Ettore Masina • 28.06.02] Al suo funerale alcuni levavano in alto cartelli che ricordavano la sua bontà, la la capacità di essere seminatore di speranza in una periferia squallida e violenta. In uno di quei cartelli don Luis Lintner, prete italiano, altoatesino, ammazzato in Brasile, veniva definito “nonno dei pescatori”.

DON LUIS LINTNER, NONNO DEI PESCATORI

Quando l’ho letto nelle appassionate  cronache di Francesco Comina, subito ho pensato che un soprannome del genere sarebbe piaciuto a Jorge Amado, il grande cantore della gente di mare di Salvador e della Bahia: non solo naviganti e pescatori ma anche ragazzi di strada, anzi di spiaggia, quelli che lui chiamava “i capitani della notte”.  Di ragazzi così, ma della Salvador più miserabile, là dove il mare è soltanto uno dei tanti odori notturni e la sabbia serve per fare cemento, dove i turisti non si spingono mai, si occupava da anni don Luis, e adesso lo hanno ucciso. Le città e la regione della Bahia de Todos os Santos (che vuol dire: Baia di tutti i Santi), nonostante il piissimo nome, sono terra di atroci contraddizioni: panorami di sogno avvelenati dall’industria petrolifera, immense piantagioni e, ai loro confini, una vera e propria epidemia della fame; miseria e perciò delinquenza: quella spicciola e quella organizzata. Caparbio come soltanto i montanari sanno essere, don Luis vedeva chiaramente questi grovigli umani di disperazione, di smania di vendetta e di qualche successo, ma non si arrendeva al “realismo” della disperazione, continuava a scrivere ai suoi amici altoatesini lettere come questa: “Numerose isole di solidarietà e gesti di una vivente giustizia alimentano la pianticella della speranza. Fare, senza lamentarsi che gli altri non fanno; andare avanti senza mollare solo perché il cammino procede troppo lentamente; ridere di se stessi (e non solo) invece di prendersela con gli altri; costruire ponti, invece di scavare fossati; cercare amici, invece di filosofeggiare sulla solitudine; credere che un dio padre ci ama e che ama il suo/nostro mondo… Io me lo voglio prefiggere!”. Che prete scomodo, quel don Lintner. Nel 1992 a Salvador si era riunita la “cupola” latino-americana, un’assemblea dei governanti di tutto il continente. Allora la città era stata restaurata, quasi affannosamente: ritinte con gli originali delicati colori “pastello” i palazzetti del Pelourinho (il quartiere dell’infamia: accanto alle case dei signori il palo per appendere gli schiavi ribelli), restaurate le 365 chiese, e  persino cementificate, ad onore di tanto trambusto, le rive della ex-verdissima laguna detta “Lagoa do Abaetè”. Non so cosa dicesse allora don Lintner; ma sappiamo cosa scriveva e diceva di un nuovo carnevale storico-affaristico che va impazzando in questi mesi per le strade della più bella città dell’America Latina e cioé: le celebrazioni del 500.mo anniversario dell’arrivo dei portoghesi in Brasile e del 450mo anniversario dello sbarco nella Bahia, subito battezzata con il cristianissimo nome di cui s’è detto e trasformata in terminale di fiorenti traffici di schiavi. “Vengono riscaldate vecchie favole – aveva scritto qualche tempo fa don Luis ai suoi amici italiani – e mezze verità. Si rinvia la riflessione per apparire “più grandi”. Ma la realtà è ben altra. E di qui nasce la resistenza contro questa tronfia pomposità. “Gli altri 500 anni”: così si chiama un movimento popolare che vuole analizzare criticamente l’aggressione portoghese, senza tacere che la conquista è costata la vita a milioni di indios e nei decenni successivi la schiavitù a milioni di neri. E che il genocidio, sotto altre sembianze, va ancora allegramente avanti. Un esempio: proprio qui, dove le navi portoghesi presero terra, c’è una tribù di indios minacciata nella sua sopravvivenza. Il suo territorio viene continuamente aggredito, 500 uomini della polizia militare dovrebbero preoccuparsi di “mantenere l’ordine”; in realtà perseguitano gli indios più di quanto li aiutino, e rubano la loro manioca e i loro frutti”. La polizia militare è uno dei grandi problemi del Brasile: inquinata di ogni sorta di sporcizia morale, usa a una spietata violenza nei confronti dei poveri. C’è chi dice che don Luis sia stato ucciso da qualche suo agente, di quelli che compongono gli squadroni della morte al servizio del narcotraffico, perché il prete si batteva per strappare i giovani del ghetto a questa forma di schiavitù. E più che probabile: è certo che un prete così non poteva che scontrarsi con i poteri “ufficiali” e con i poteri occulti, così come in anni lontani (ma non troppo) altri sacerdoti italiani nella Bahia: dal fiorentino don Renzo Rossi, cappellano dei prigionieri politici all’epoca della spietata dittatura dei militari, al marchigiano don Paolo Tonucci, oppositore di un vergognoso neocolonialismo italiano truccato da cooperazione internazionale, dal gesuita bergamasco Claudio Perani, implacabile studioso dei fenomeni della violenza degli agrari al bolzanino don Ermanno Allegri, pubblicamente minacciato dai pistoleiros al servizio dei latifondisti. Al momento, come spesso in Brasile, e spessissimo nella Bahia, gli indagatori fanno volare stracci e  finiscono in carcere “marginali” senza nome né protezione; ma. in tutti i casi è certo che don Luis è stato ucciso perché “prete di frontiera”: come, in Italia, tanto per fare due nomi, don Puglisi e don Peppino Diana. Nasce dentro allora, fra tante altre, una domanda: perché gli stessi giornali che dedicano pagine e pagine alla drammatica vicenda dei preti pedofili, sono così avari nei confronti dei preti che si giocano la vita per difendere la causa dei piccoli? All’assassinio di don Lintner i mass-media italiani hanno dedicato poco più che una frettolosa notizia. Il pianto dei poveri, e il martirio degli operatori di giustizia paiono evidentemente assai meno interessanti dei samba carnevalizi. E non è problema che riguarda soltanto i giornali. La diocesi di Bolzano ha preso il lutto per l’assassinio di questo suo figlio donato al Brasile; ma nelle altre chiese italiane è stato fatto il suo nome? Quanto lievito evangelico lasciamo cadere nel fango dell’effimero, noi e i nostri pastori.