[da ADISTA n°62 • 05.08.02] La nonviolenza come riduzione della moltitudine ad una massa omogenea e allineata? Non sembrerebbe proprio, a giudicare da quanto dice - da sempre - Alex Zanotelli, che della nonviolenza è uno dei difensori più convinti e appassionati. Nell'intervista concessa ad Adista, che qui di seguito riportiamo, Zanotelli parla chiaro: il dialogo non basta, serve la forza. La forza dello sciopero, del boicottaggio, della nonviolenza attiva: una forza senza la quale i potenti di questo mondo non cederanno mai. Di seguito l'intervista.

È TEMPO CHE IL MOVIMENTO COMINCI A SENTIRSI SOGGETTO POLITICO. INTERVISTA A PADRE ALEX ZANOTELLI

Come va lo stato di salute del movimento ad un anno dai fatti di Genova? Ritieni anche tu che sia in crisi? Per quali motivi? Quale può essere la via d’uscita?
Non è facile fare una valutazione dello stato di salute del movimento – che io preferisco chiamare società civile – ad un anno da Genova per uno che, come me, è stato via per così lungo tempo e si è appena riaccostato alla realtà italiana. Ma non parlerei di crisi, anzi l’impressione è che ci sia più coscienza e che la partecipazione si sia andata allargando, che abbiamo a che fare con un movimento ben più vasto di quello che si è trovato a Genova. Credo stia vivendo un momento di grande vitalità e che dovrà viverla soprattutto nel prossimo futuro. Forse sembra che ci sia crisi perché il movimento appare frammentato. Ma è mai stato un movimento unitario? Ci sono state fin dall’inizio molte anime che hanno trovato una loro compattezza a Genova; era chiaro che ci fossero divergenze. Non direi tra credenti e non. Penso che i problemi fossero altrove ma adesso, dopo Genova, è importante fermarsi e riflettere, soprattutto prima dell’incontro del Forum sociale europeo a Firenze.

La componente cattolica del movimento, che era così significativamente presente a Genova l’anno scorso, dà l’impressione di essersi un po’ defilata. Eppure sul versante della nonviolenza, particolarmente sentito da questa componente, in un anno di iniziative e mobilitazioni non si è registrato nessun incidente.
Questa domanda sottintende delle cose che io non condivido. È un dato significativo che la componente cattolica direi “quasi ufficiale” (Azione cattolica, Agesci), per la prima volta nella storia italiana, sia scesa in strada. E certo non lo ha fatto con la benedizione dell’episcopato italiano. Credo che molti vescovi in Italia non fossero d’accordo su quel passo: avevano paura di sporcarsi le mani con questa storia. Non ritengo che la componente cattolica adesso si sia defilata a causa della violenza a Genova. Il movimentismo cattolico (dall’Ac all’Agesci) con Genova ha fatto un incredibile passo in avanti. Dopo si è fermato, forse condizionato anche dalla paura di vescovi e sacerdoti di buttarsi, quasi si stessero facendo delle scelte politiche. Dovremmo fare di tutto per aiutare la base cattolica movimentista a non creare una spaccatura con la Chiesa ufficiale, e per aiutare i vescovi a capire che, per questa componente cattolica di base, la responsabilità storica di scendere in strada nasce dalla fede, non da scelte partitiche. È compromettersi con la storia a partire dalla propria fede. Dovremmo aiutare il movimento a diventare il più unitario possibile. Che la Chiesa si schieri! La Chiesa, le Chiese, le religioni sono delle componenti importantissime in questo momento per organizzare la società civile.

Come valuti l’esperienza delle “Sentinelle del mattino”, quell’eterogeneo cartello di associazioni cattoliche che è apparso lo scorso anno con un appello ai governi del G8? La strada del dialogo con le istituzioni, anche quelle come il G8 di cui il movimento denuncia invece l’illegittimità, può veramente portare dei frutti?
Ho seguito le Sentinelle quando ero ancora a Koro-gocho, in Africa: mi è sembrato che abbiano lanciato al G8 un bell’appello, a partire dalla fede. Anche i vescovi liguri quando hanno scritto il loro documento in preparazione del G8 lo hanno fatto a partire dalla fede. Ritengo estrema-mente importante non tanto il fattore dialogo, che è troppo poco, ma quello della forza. Attenzione, non mi riferisco alla violenza ma ad altri mezzi come lo sciopero, il boicot-taggio, la nonviolenza attiva. Le istituzioni pubbliche, i governi non cederanno se non si usa la forza. Si tratta di dimostrare ai potenti di questo mondo che questa società di base ha forza. Dobbiamo far sentire il nostro peso. Non si tratta di un dialogo idilliaco.

Sei l’ispiratore di una delle componenti più significative del movimento antiliberista, la Rete di Lilliput. Il tuo appello “Tutti dentro al forum” ha dato una grande scossa alla discussione interna al movimento sui temi della struttura organizzativa, della partecipazione orizzontale e della trasparenza. Ritieni che in questo periodo si siano fatti passi avanti in questa direzione?
Due precisazioni. Non mi sento l’ispiratore della Rete di Lilliput. Con Gesualdi abbiamo scritto un documento, proprio a Korogocho, invitando i gruppi a mettersi insieme in chiave locale. Non abbiamo mai valutato l’aspetto nazionale che ci fa un po’ paura. Nel mio viaggio in Italia, nel ’95-’96, ho visto tantissima gente, tantissimi gruppi, tantissimo movimento di base e pochissima incidenza politica. L’idea di Lilliput nasce da qui: l’invito a mettersi insieme e a cominciare a pesare di più politicamente. Seconda precisazione. Non so chi abbia dato il titolo “Tutti dentro al forum” all’appello, che nasce anch’esso a Koro-gocho come invito a riflettere per tutto il movimento. Osservando il movimento da lontano ho avuto molta paura: ho temuto che i partiti cominciassero a mettere le mani sul movimento, per questo ho chiesto: “fuori i partiti dal movimento”. I partiti dovrebbero fare i partiti. Oggi il dramma è che i partiti pensano di poter decidere politicamente ma alla fine non decidono nulla perché le decisioni sono prese dai poteri economici. Dobbiamo recuperare il potere politico, e si recupererà soltanto se dal basso nascerà qualcosa d’altro, che poi potremo pensare di tradurre in termini partitici. Se i partiti s’impadroniscono del movimento possono rovinarlo. Mentre ho chiesto che i sindacati e le chiese siano particolarmente presenti. In secondo luogo avevo l’impres-sione che ci fossero processi decisionali interni al movimento poco democratici e poco trasparenti; perciò ho chiesto più democraticità e trasparenza possibili. Infine, il problema della violenza, massima discriminante. Avevo già litigato con Lilliput su questo. Ho parlato con una durezza incredibile perché dalla violenza dobbiamo uscire fuori, altrimenti è inutile che stiamo qui a parlare di contestazione del sistema: rischiamo di ripetere il sistema che oggi è profondamente violento. Sono stati questi aspetti che mi hanno spinto, come coscienza critica del movimento, a lanciare un appello per avvertire che questo movimento è un’occasione troppo importante che non va sprecata.
In questo periodo ritengo si siano fatti passi in avanti verso un movimento più unitario, tutte le componenti (quella cattolica, quella di Lilliput, quella dei social forum, quella dei disobbedienti e quella dei centri sociali) hanno riflettuto e stanno riflettendo seriamente.

Il tuo appello è stato interpretato come un invito all’unità. Ma dopo la decisione della Rete di Lilliput di non aderire al Social forum italiano, proprio l’organiz-zazione delle giornate genovesi ha evidenziato le profonde differenze tra le varie componenti. La stampa parla di un movimento diviso, la Rete di Lilliput di movimento diversificato. Intanto però sembra che la rete vada un po’ per la sua strada.
Certamente il mio appello era un invito all’unità, ma ad un’unità che deve essere basata su una seria riflessione, su radici solide e su un profondo consenso interno. Non possiamo dirci uniti se non accettiamo certe cose che vengono ritenute fondamentali da tutti. Ecco l’importanza della chiarezza del dialogo. Prima di Genova non è potuto avvenire, purtroppo, e mi dispiace che Genova 2002 non sia stato un momento unitario. Il movimento diversificato va bene, ma sarebbe stato importante che le differenti anime si fossero presentate unite. Questo oggi non c’è, dobbiamo ammetterlo. Credo che sia un momento di stasi e di riflessione. Mostrarsi uniti quando non lo si è poteva servire da buona pubblicità ma non avrebbe aiutato il movimento. È vero che la Rete di Lilliput non ha aderito al Social forum italiano ma questo non vuol dire che la Rete di Lilliput vada per la sua strada. Molti dei nodi di Lilliput sono liberi di aderire alle varie manifestazioni.
Ritengo sia importante per il movimento riflettere sugli sbagli che abbiamo fatto l’anno scorso. È vero che gran parte della violenza è venuta dalle decisioni dell’autorità perché volevano far passare l’intero movimento per violento. Ma sbagli ne abbiamo commessi, anche sulla violenza. Ecco perché è importante fermarsi a riflettere e fissare obiettivi e metodologia ben precisi.

La scelta della Rete di Lilliput di privilegiare la partecipazione diretta con la conseguente dilatazione dei processi di elaborazione e di decisione, di puntare ai contenuti piuttosto che alle esigenze dei mass media, pur molto condivisibile, non comporta il rischio di una perdita completa di visibilità?
Una domanda molto bella ma anche molto bischera! Io penso che non abbiamo bisogno al momento di chissà quale visibilità, piuttosto abbiamo bisogno di chiarezza, di ricompattarci. Vorrei che questo movimento cominciasse a sentirsi soggetto politico. Ma politico con la P maiuscola, con un suo messaggio e un suo programma. Il movimento deve avere una sua valenza politica, non partitica, ripeto politica. Non mi preoccupa la visibilità. I mass media sono estremamente pericolosi perché sono in mano al potere economico e sono capaci di distruggerci tutti. Preferirei meno visibilità mediatica al momento, e più capacità organizzativa, più senso politico, verso un progetto con cui poi fare pressione sulle istituzioni.

Come valuti questi primi mesi trascorsi in Italia dopo più di dodici anni passati a Korogocho? Andrai a vivere, hai già detto, in una periferia tra gli emarginati. Hai già un’idea di come svilupperai il tuo lavoro?
Dopo dodici anni la prima impressione è orribile. Non mi sarei mai aspettato, per esempio, di arrivare in un Paese come questo e trovare la legge Bossi-Fini. Ho già detto che una legge del genere mi fa vergognare di essere cristiano e di essere italiano. Come mi fa veramente male sapere che si sta smantellando la normativa 185 sul controllo delle armi, frutto di anni di lavoro negli anni Ottanta. E poi, al di là di queste ultime due novità, veramente preoccupante è il costante attacco alla legalità; sentire un ministro che dice che bisogna convivere con la mafia; gli attacchi alla magistratura, alla stampa… Anche se la cosa non mi sorprende più di tanto, sono fermamente convinto che una società opulenta non può esprimere altro che questo. Di contro ho notato che c’è un grande fermento, una grande vitalità alla base: è la miglior società civile che ci sia in Occidente, sono in tanti che si stanno organizzando e molti sono giovani. Questo movimento ha alle spalle vent’anni di lavoro e se lo buttiamo via per le nostre stupide divisioni, non troveremo un’altra generazione di giovani che raccoglierà il seme che abbiamo gettato. È una situazione veramente preoccupante, aggravata dal panorama mondiale di guerra infinita e dalla minaccia ecologica che si fa più incombente.
Andrò a vivere tra gli emarginati nel sud d’Italia, perché il Sud d’Italia ha pagato lo sviluppo italiano come il Sud del mondo paga il nostro sviluppo. Vorrei lavorare in una grande città del Sud, cercando di vivere come tutti gli immigrati, come ho fatto a Korogocho. Essere presente tra i più poveri è fondamentale per me come prete, per la mia preghiera, per la mia spiritualità. Ma mi dà anche la possibilità di poter dire certe cose senza avere il dito puntato contro. Nel senso che se io non vivo con sempli-cità non posso andare a raccontarlo ad altre persone. Vivere dentro questa realtà è importante anche per dare una mano alla società civile, per dare una spiritualità che manca a questo movimento.
Un’ultima cosa. Ritornando in Italia ho trovato una Chiesa, intendo Popolo di Dio, che al livello della base è estremamente vivace e attenta al sociale. Ma la cosa che fa più impressione è vedere che come Popolo di Dio, come Chiesa, siamo ormai funzionali, saldamente incollati a questo sistema. Abbiamo perso la capacità di essere coscienza critica, di disturbare, di stimolare, di far pensare, di guardare in avanti ed è soprattutto a questo che la Chiesa è chiamata oggi.